Il teologo Luigi Maria Epicoco ha dissezionato e analizzato brano dopo brano “La strada”, il romanzo che Cormac McCarthy scrisse nel 2006 e che gli valse il premio Pulitzer per la narrativa e dal quale è stato anche tratto un film. È la storia di un uomo e del suo figliolo che attraversano a piedi un’America devastata dalla guerra nucleare. Sono vestiti di cenci, trascinano il carrello di un supermercato con le poche cose essenziali che sono riusciti a racimolare, al manico è attaccato un retrovisore da motocicletta cromato che usano per tenere d’occhio la strada dietro di loro. Possiedono anche una pistola ma con due soli colpi.
La moglie/madre non è con loro perché non ha retto al collasso della civiltà e si è suicidata: “Non siamo dei sopravvissuti. Siamo dei morti viventi in un film dell’orrore…Prima o poi ci prenderanno e ci stupreranno. Stupreranno anche lui. Ci stupreranno, ci ammazzeranno e ci mangeranno. E tu non vuoi affrontare questa verità”. Ma il marito non si è fatto sopraffare dalla disperazione e si messo in marcia, verso sud, tenendo il bambino per mano.
Predoni, vagabondi, cadaveri ridotti a cuoio, cenere, polvere, fango, campagne nere e spoglie, automobili abbandonate, città distrutte, scheletri di impianti industriali, stazioni di servizio in rovina, cartelloni pubblicitari sbiaditi e sciupati dalle intemperie. Tutto è grigio, livido, gravido di paura. Nella cantina di una casa scoprono un gruppo di “persone nude, maschi e femmine, che cercavano di nascondersi, riparandosi il viso con le mani. Su un materasso era steso un individuo con le gambe amputate fino ai fianchi e i moncherini anneriti e bruciati. L’odore era micidiale”. Sono gli animali da allevamento di un’umanità divenuta cannibale.
Fuggono, salvandosi per un pelo, inseguiti dalle grida d’aiuto di quei disgraziati. “Se li mangeranno, vero?”, chiede il bambino”. “Sì”. “E noi non li potevamo aiutare altrimenti avrebbero mangiato pure noi”. “Sì”. “Per questo non li potevamo aiutare”. “Sì”. “Ok”. Il piccolo, chiosa Epicoco, ha bisogno di essere rassicurato dal fatto che l’omissione di ausilio non fosse stata frutto di disinteresse ma di impossibilità. Poi interroga di nuovo il padre. “Noi non mangeremmo mai nessuno, vero?”. “No. Certo che no”. “Neanche se stessimo morendo di fame?”. “Noi stiamo già morendo di fame”. “Hai detto che non era così”. “Ho detto che non stavamo morendo. Non che non stavamo morendo di fame”. “Ma comunque non mangeremmo le persone”. “No. Non le mangeremmo”. “Per niente al mondo”. “No. Per niente al mondo”. “Perché noi siamo i buoni”. “Sì”.
Il papà teme che la compassione espressa dal figlio sia un segno di fragilità. Ma quando l’uomo muore a causa di una polmonite, proprio quella compassione sarà la fiaccola che guiderà il bambino verso una nuova alba.
Epicoco, che è anche sacerdote, trae un filo di fiducia da questo scenario. Ma il suo saggio, “Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l’Apocalisse” (Einaudi), non ha una finalità di propaganda evangelica bensì offre laici spunti di riflessione anche per chi non crede nella divina salvezza. Come quando afferma: “Lì dove non si sanno più chiamare le cose per nome, la violenza prende il sopravvento. È la violenza di un popolo contro un altro popolo, ma è anche la violenza domestica, che si alimenta per l’assenza di parole e il proliferare del risentimento. Può sembrare paradossale ma imparare di nuovo a parlare e a dare peso alle parole può disinnescare molte crisi contemporanee”.
Poi c’è Fallout, serie televisiva basata su un videogioco. Sembra avere molto successo. Come dice il titolo stesso, è ambientata in un mondo dove i funghi atomici hanno oscurato il sole e le radiazioni contaminano e trasformano gli uomini. La protagonista, una giovane donna, affronta avventure di ogni tipo alla ricerca del genitore rapito da una banda di neo-selvaggi.
Forse, più o meno consciamente, ci stiamo abituando all’idea che prima o poi qualcuno schiaccerà i bottoni dell’apocalisse.
Marco Cianca