L’aspro scontro sindacale che si sta sviluppando sull’eventuale cancellazione del Job Act, con la polemica tra Cisl e Cgil, quest’ultima promotrice di un referendum abrogativo, non tiene conto dell’esigenza di dare corso ad una nuova “Carta delle regole del lavoro”, a partire dalla ridefinizione della nozione di impresa, alla luce dei processi di digitalizzazione generati dall’Economia 4.0 e dalle incognite dell’Intelligenza Artificiale. E ciò deve riguardare i temi della partecipazione, della sicurezza, della formazione, delle retribuzioni e degli orari di lavoro.
Su quest’ultimo tema si deve registrare la proposta cosiddetta “Four Days Week”, anche a seguito della pandemia, con lavoratori e datori di lavoro che ripensano all’importanza di nuove politiche degli orari, per sostenere la flessibilità aziendale, il benessere sul posto di lavoro e la conciliazione con i tempi e le esigenze di vita.
L’idea è semplice: i dipendenti svolgono la prestazione quattro giorni alla settimana, ricevendo la stessa retribuzione e gli stessi benefit, mentre la flessibilità aziendale generata potrebbe compensare l’incremento del costo del lavoro, in favore del quale prevedere incentivi fiscali.
Non vi è dubbio che la retribuzione legata all’orario di lavoro era connessa ad un sistema produttivo, quello taylorista-fordista, ormai abbondantemente superato dai processi di innovazione generati dalla tecnologia digitale.
Si tratta di riscrivere i diritti del lavoro come diritti sociali. “Il lavoro non è una merce”, è il motto scritto nel il Trattato di Versailles nel 1919 e sostenuto dall’economista irlandese John Kells Ingram durante il congresso delle Trade Unions inglesi del 1880, che condensa le trasformazioni sociali e culturali che stanno tuttora alla base del diritto del lavoro nel nostro tempo: e cioè che il lavoro non può essere considerato un’entità indipendente dalla persona del lavoratore e che deve avere in primo luogo un fondamento etico e non può essere, perciò, regolato solo dal mercato.
La conseguenza è che il tempo di lavoro non può essere determinato esclusivamente dal suo valore di scambio, perché deve garantire ai lavoratori ottimali condizioni di salute e sicurezza fisica e mentale, secondo una concezione non mercantile, come ebbe a sostenere il sociologo del lavoro Luciano Gallino.
Tra i Paesi che hanno promosso la sperimentazione del “Four Days Week”, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Scozia, Galles, Islanda, Svezia, Finlandia, Nuova Zelanda e in Italia la proposta di Intesa San Paolo ai propri dipendenti di concentrare il monte ore settimanale su quattro giorni anziché cinque e di estendere lo smart working fino a 120 giorni l’anno, una ipotesi significativa è quella del Governo a guida socialista spagnolo, per un programma pilota di una settimana lavorativa di quattro giorni e un fondo governativo di 10 milioni di euro per sostenere incrementi di produttività, che compensino l’aumento del costo del lavoro.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana, funzionale ad una “Rigenerazione del lavoro” come afferma il leader della Confial Benedetto Di Iacovo, da introdurre nelle aziende, ma la cui realizzazione richiede un elevato livello di dialogo sociale tra istituzioni, sindacati e associazioni datoriali, che allo stato non si intravede.
Maurizio Ballistreri, Professore di Diritto del Lavoro nell’Università di Messina