Come si dice in gergo calcistico, l’idea era buona ma l’esecuzione è stata pessima. Parliamo del Partito democratico, nato più di quindici anni fa dalla fusione tra ex comunisti poi diventati ex Democratici di sinistra ed ex democristiani poi diventati popolari e poi Margherita. L’idea di mettere nello stesso partito forze diverse ma unite da uno stesso ideale, ovvero quello di già proposto da Enrico Berlinguer negli anni Settanta con la teoria del compromesso storico, poi naufragato a causa di tante spinte contrapposte e soprattutto del rapimento e assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse, cioè dell’altro artefice dell’intesa tra comunisti e democristiani. Un ideale chiamiamolo democratico, che potesse essere un argine alle mai sopite tentazioni di golpe all’italiana. Berlinguer era molto impaurito da una deriva cilena, ossia dal ribaltamento tramite un colpo di stato appoggiato dagli Usa di un governo socialista eletto dal popolo ma con un margine esiguo: “Non si governa col 51 per cento”, disse l’allora leader del Pci.
Negli anni novanta e poi nei Duemila non esisteva più questo pericolo, tuttavia democratici e cattolici pensarono che per arrivare al governo battendo il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi e dare un’alternativa stabile, diciamo anche una strategia politica, una visione come si diceva allora, servisse appunto una nuova forza politica che superasse le antiche divisioni e si proponesse come la vera grande novità del terzo millennio.
L’idea fece ovviamente molto discutere, qualcuno non era d’accordo, pensando che fosse meglio che restassero due partiti distinti per poi magari allearsi alle elezioni ed eventualmente al governo. Invece vinse la maggioranza e il Pd nacque. Ma, come disse Massimo D’Alema qualche anno dopo, fu “un amalgama non riuscito”. Tradotto nella pratica degli anni successivi, l’amalgama non riuscì non tanto e non solo dal punto di vista politico, ma soprattutto da quello dell’esercizio del potere. Con tutti i suoi annessi e connessi, cioè le commistioni con gli affari e dunque le tangenti e dunque le inchieste e dunque le incriminazioni, i rinvii a giudizio, i processi. Difficile contare quanti dirigenti nazionali e soprattutto locali del Pd sono finiti nei guai giudiziari in questi anni, tanti, troppi per poter parlare di casi isolati. Evidentemente il potere corrompe e si lascia piacevolmente corrompere, ma questa purtroppo è un’ovvietà.
E così arriviamo ai giorni nostri, giorni in cui il rischio che la “questione morale” (ancora Berlinguer) travolga anche quell’embrione di campo largo tra Partito democratico e Cinquestelle che può (poteva) rappresentare l’alternativa al governo della destra. Invece, grazie agli scandali del voto di scambio in casa Pd, da Bari a Torino, e grazie all’alzata di scudi, anche strumentale, di Giuseppe Conte che non ha perso l’occasione per ribadire il vecchio slogan grillino “onestà, onestà”, e affossare così le intese a livello locale col partito di Elly Schlein, quell’alternativa si allontana a passi da gigante. Lui chiede alla leader del Pd di fare pulizia nel suo partito prima che il suo partito la travolga. Sarebbe pure condivisibile se non fosse piuttosto complicato liberarsi di tutti coloro, da nord a sud, non sono esempi di moralità. Per non parlare del fatto che anche dentro il Movimento diretto da Conte non sono stati pochi i casi di intreccio tra politica e affari illeciti. Purtroppo l’attività politica ormai è pervasa da episodi di questo genere, l’unica possibilità allora è quella di cacciare coloro che vengono “pizzicati” con le cosiddette mani nel sacco. Anche derogando al garantismo che spesso – non sempre – è coinciso con l’impunità.
Certo, non mancheranno gli errori giudiziari e di conseguenza quelli disciplinari interni ai partiti coinvolti, tuttavia la posta in palio è troppo alta per poter perdere tempo nell’attesa degli sviluppi processuali che, come è noto, sono lunghi e farraginosi mentre i tempi della politica hanno bisogno di decisioni rapide. Basti pensare alle prossime elezioni locali e a quelle europee di giugno, per capire che Schlein e Conte devono accelerare se vogliono proporsi come la futura alternativa a Meloni, Salvini e “compagni”. Altrimenti ognuno per la sua strada e chi vivrà, perderà.
Riccardo Barenghi