Il 19 marzo del 2002 le Br uccisero Marco Biagi. Non dimenticherò mai quella terribile sera. Ero con mia moglie a mangiare una pizza in un ristorante di Roma quando mi telefonò un amico della Cgil. Ma è vero? Mi chiese. Non capivo a cosa si riferisse e lui mi disse che si era sparsa la voce che avevano ucciso Marco Biagi. Fu un colpo durissimo, mi alzai in piedi, non capivo più nulla, vedevo solo il volto sorridente di Marco. Poi fu tutta una corsa, scappai al giornale, riaprimmo le pagine, io scrivevo e piangevo, non riuscivo a fermarmi. Mi chiamarono un po’ tutti gli amici, quelli che sapevano della mia amicizia con quell’uomo buono. Il giorno dopo Il diario del lavoro uscì con una decina di articoli di amici che volevano testimoniare il loro orrore e il loro disprezzo verso quegli assassini senza onore.
Sono passati tanti anni, ben 22, ma il dolore non si è attenuato. Come non si è fermato il dispiacere di aver perso un uomo di grande valore. Sulle idee di Marco Biagi se ne sono dette di tutti i colori, nel bene e nel male. La verità è che l’unico suo errore fu quello di essere avanti almeno di venti anni nel pensiero corrente. Solo adesso che le relazioni industriali e la legislazione del lavoro sono profondamente cambiate è possibile capire fino in fondo il suo messaggio. Che era molto semplice. Lui aveva capito che bisognava spostare l’attenzione dal posto di lavoro al lavoratore, alla persona. Adesso è facile capirlo, allora era quasi impossibile.
Nella vulgata più rozza Biagi è quello che ha precarizzato il lavoro togliendo o proponendo di togliere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Senza quella difesa il lavoratore è più debole, esposto alla violenza di chi lo licenzia. In realtà Biagi sapeva che il lavoratore in quel modo sarebbe diventato più debole, ma pensava che comunque la corsa della tecnologia non si sarebbe fermata e che i posti di lavoro non sarebbero più stati eterni. Una volta finiti gli studi si entrava in un’azienda e in quella si stava fino al pensionamento. Ma già alla fine del secolo scorso era chiaro che non sarebbe stato più così e che i lavoratori avrebbero dovuto affrontare la pena e la difficoltà di cambiare lavoro più volte nella propria vita. Almeno sette volte, si diceva. Per questo Biagi pensava che la cosa più semplice da fare doveva essere quella di spostare la difesa dal posto di lavoro al lavoratore, fornendogli gli strumenti per affrontare al meglio la perdita di un posto di lavoro. Era evidente, almeno a Biagi, che il lavoratore doveva essere aiutato a trovare una nuova occupazione. Con un programma di formazione continua, con strumenti di gestione del mercato del lavoro, con una costanza e una preparazione che avrebbero consentito al lavoratore di non trovarsi da solo in balia degli eventi.
Era un progetto preciso di politica attiva del lavoro. Per questo quando il governo di Matteo Renzi intervenne sulla legislazione del lavoro e con il Jobs Act eliminò nei fatti l’articolo 18 molti capirono che in quel modo si metteva in atto il progetto di Marco Biagi e non biasimarono l’intervento. Il punto, fondamentale per capire cosa accadde, è che la manovra si fermò lì, mancò tutta la parte relativa all’attivazione di strumenti di politica attiva del lavoro che avrebbe compensato la caduta di difese del lavoro.
Per onore del vero il governo Renzi provò a mettere in piedi un sistema di difese allargate per il lavoro, ma si scontrò con la resistenza delle Regioni, che avevano ampie competenze in quelle materie e non avevano alcuna intenzione di cederle al potere centrale, che forse l’avrebbe usato meglio. Era stato programmato l’intervento di una struttura importante, l’Anpal, che però con la caduta del referendum istituzionale, rimase inefficace. L’errore fu quello di avviare un prima in attesa di un dopo, pratica sempre molto pericolosa perché non è detto che al primo intervento poi segua obbligatoriamente il secondo. E non è nemmeno detto che l’Anpal sarebbe stato davvero risolutivo per creare quel sistema di difese che il progetto iniziale aveva messo in fieri.
Adesso tutto ciò è storia passata. Le relazioni industriali hanno capito l’importanza della difesa della persona, si moltiplicano gli accordi nei grandi gruppi industriali impostati proprio sulla difesa della persona. La formazione è diventata un diritto soggettivo. Tanti passi ancora devono essere compiuti, ma l’impostazione è cambiata. Grazie anche alle intuizioni di Marco Biagi.
Massimo Mascini