Tra i mali sociali di questo secolo il più sottile e pervasivo è l’indulgenza: lo siamo con i nostri cari e con i nostri pari; a casa e al lavoro; con il collega e con il superiore. Accettiamo le cose così come sono perché così è sempre stato e perché mai provare a cambiare uno stato che finora ha funzionato? E se provando a ribaltare soprusi, molestie e iniquità le cose andassero peggio? Un licenziamento, un divorzio, l’isolamento sono dietro l’angolo; da penultimo a ultimo della catena alimentare è davvero un soffio. Perciò tira a campare, porgi l’altra guancia. Ma prima o poi, volente o nolente, le guance da porgere finiranno (courtesy Ministro Crosetto) e allora qualcosa dovrà per forza cambiare. Per forza e non per favore e quindi di certo non con indulgenza, perché la pressione è diventata così insopportabile che questa messianica retorica della gentilezza di cui ci hanno rimpinzato ha finito per diventare un harakiri sociale. Sia chiaro, l’indulgenza non è un discredito, anzi: di fronte a manifestazioni di intolleranza indiscriminata è un valore assoluto. Ma a furia di sentirci intaccati nei nostri valori più profondi e veder degradare la dignità della persona occorre ribaltare le parti e impugnare il coltello dalla parte del manico. Messa così sembrerebbe l’incitamento a un’insurrezione armata, ma fino a oggi è stata la nostra persona a essere minacciata nella sua integrità. Dobbiamo cominciare a ripensarci e dobbiamo farlo collettivamente perché da soli non si va da nessuna parte. E farlo a partire dal lavoro, il concetto che forse più di tutti definisce l’identità e il posizionamento nel mondo di un individuo. Senza mezzi termini, senza giri di parole. Insieme. Perché la forza dell’unione è l’unica propulsione in grado di travolgere un sistema che si alimenta delle nostre paure delle nostre insicurezze e debolezze, che come una carie intacca la nostra persona e la degrada nelle sue più profonde aspirazioni. Su tutte quella dell’autodeterminazione.
Irene Soavi, giornalista classe ’84 del Corriere della sera, centra perfettamente il punto con la sua ultima uscita editoriale Lo statuto delle lavoratrici. Come ti senti, a cosa hai diritto, dove possiamo cambiare (Bompiani, 2024), un saggio che non si limita a infilare fredde constatazioni di cui abbiamo pieni occhi, orecchie e cervello, ma che rivoluziona la lettura delle donne nel mondo del lavoro in una maniera ormai insperata. Un’analisi disincantata ma “sentimentale”, priva però proprio di quella pestifera indulgenza un po’ buonista che nella maggior parte della lettura specialistica, alla fine di un filotto di dati e statistiche, ci fa solo sospirare “oh, poverine”. Voltata la pagina, poi, tutto resta com’è. Al contrario, con un linguaggio sferzante e provocatorio, Soavi lo dichiara apertamente: l’obiettivo della sua trattazione è instillare un sentimento di rabbia, soprattutto laddove in Italia solo il 5% della popolazione lavorativa è felice di andare al lavoro (sondaggio Gallup). Quali sentimenti alimentano le fila del restante 96%? Una totale disaffezione al proprio mestiere, emersa con più vigore durante la pandemia, infarcita di frustrazione, tristezza, depressione, insoddisfazione, burnout a causa di un sistema vessante e che ha dato il via a fenomeni come le grandi dimissioni e il quiet quitting. Ma quello che Soavi riesce impudentemente ad affrontare e ad affermare è un’ardita verità che una certa parte della cultura del wokismo sta malcelando: il fatto che le lavoratrici sono sì, statisticamente ma anche storicamente, una categoria di lavoratori dove le storture del nostro modo di lavorare contemporaneo si abbattono con più vigore. Ma ciò riguarda anche gli uomini. E quindi «in questo Statuto la lavoratrice è il modello sul quale troviamo utile ripensare, in quest’epoca di grande dibattito collettivo sul lavoro, l’intera figura del lavoratore». Questo femminile, quindi, è sovraesteso e sineddotico: «La tesi è che correggere o sanare fenomeni che penalizzano soprattutto le donne servirebbe a risolvere i sentimenti di distacco, disaffezione e delusione che dilagano tra i lavoratori ambosessi».
L’occupazione femminile in Italia è al 53,2 per cento, fanalino di coda in Europa e lontana dall’obiettivo del 60 per cento prefisso dalla Strategia di Lisbona per il 2020; peggio, tra le donne con figli è del 37,2 per cento. Le ragioni sono le solite: divario salariale, stipendi insufficienti, sistema di welfare inefficiente per conciliare il lavoro di cura con la vita professionale, ambienti di lavoro tossici, discriminatori e perfino molesti. Ma anche un profondo senso di inadeguatezza e soggezione che porta le donne a sentirsi fuori posto, di troppo, non conformi a una presunzione ideologica le vuole inadatte in qualche modo al lavoro, e quindi ad auto-segregarsi alla sfera della riproduzione (un richiamo dichiarato alle teorie di Silvia Federici). Soprattutto, però, «un generale senso di mancanza di significato in quello che si fa, di delusione circa un percorso a cui ci si pensava destinate, di bruttezza e insensatezza del lavoro», insoddisfazione economica, i percorsi di carriera difficili da perseguire, gli oneri eccessivi delle mansioni che alla fine non portano da nessuna parte. E se a fronte di una richiesta di maggiore flessibilità di orari e luoghi di lavoro, proveniente in egual modo da maschi e femmine, la risposta è il persistere di un modello sempre uguale a sé stesso, gli esiti sono dimissioni di massa e disaffezione al lavoro. Per inquadrare questo sistema di cause ed effetti, Soavi riprende il glorioso Statuto dei lavoratori del 1970, ne estrae alcuni significativi articoli e li argomenta attualizzandoli a una realtà ben lontana da quella che aveva agitato l’autunno caldo della sua approvazione: «I soggetti interessati sono diversi dall’operaio con la tuta blu sulla cui figura lo Statuto era stato cucito, e sono diversi e nuovi pure i loro problemi: il femminile sovraesteso […] indica così non soltanto le femmine che lavorano. Ma tutte le persone che non possono o non vogliono obbedire a regole di produttività, di reperibilità, di flessibilità, potere e gerarchia che informano la maggioranza dei nostri posti di lavoro e che possiamo chiamare maschili, nuovamente solo per convenzione».
Secondo i dati Inps del 2017 (gli ultimi disponibili), il lavoro povero – che secondo la definizione ministeriale indica “un individuo si trova in una condizione di povertà lavorativa se il suo reddito da lavoro non gli consente di raggiungere un determinato standard, catturato dalla soglia di povertà” – è pari al 41,4 per cento per le donne mentre quello maschile è pari al 24,9. Percentuali simili si riscontrano tra gli under 35 e i migranti. Il gap del 16,6 per cento tra uomini e donne, per quanto riguarda il lavoro povero, non si è mai ridotto negli ultimi 30 anni. Ma per tutti i lavoratori percepire un salario decente è un diritto Costituzionale, sancito all’articolo 36 – “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” -: Poi «ci sono le lavoratrici, cioè tutte quelle persone, maschi e femmine, per cui la legge, formalmente, vige; ma nei fatti non è sufficiente. Il femminile è ancora una volta sovraesteso perché queso fatto, di essere formalmente protette ma nei fatti a rischio, accade in svariati ambiti della vita di tutti, non solo delle donne. Il lavoratore povero, che non riesce a condurre “un’esistenza libera e dignitosa” solo in forza di quel che guadagna, è una di noi». Certo resta il fatto che le donne sono mediamente pagate il 18% in meno degli uomini a parità di impiego, grado e anzianità , che la loro vita si adatta al modello o/o e non a quello e/e: si lavora o si procrea, si fa carriera o si crescono i figli. Il problema, però, è per tutti, anche per gli uomini che non riescono ad avere una vita personale gratificante e che votano le loro energie al profitto (principalmente di qualcun altro).
Ma in riferimento ai fenomeni delle grandi dimissioni e del quiet quitting: sono davvero efficaci o sono da leggere piuttosto solo come spie di malfunzionamento del sistema? È sufficiente rimescolare le carte per produrre un cambiamento? Non risulterebbe piuttosto come un inefficace adattamento dell’adagio di gattopardiano “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”? Per Soavi, in questo senso, è importante fare rete, parlare comunicare, condividere esperienze e sensazioni e il suo libro ha proprio questa ambizione: aprire una discussione collettiva e sobillare una rivoluzione dal basso laddove la politica non arriva e si dimostra inefficace (quando non proprio inerte); mescolando dati, statistiche (da soli noiosi) ad altri ingredienti: interviste a sindacalisti, cacciatori di teste e avvocati, colloqui informali con persone comuni, tutte voci usate come fonti di background, per comprendere e inquadrare un fenomeno, ma senza attribuirle. «Collera, vulnerabilità, frustrazione: sentimenti che sono epocali, non individuali, e generano nel mondo scioperi, crisi di manodopera, proteste, e poi contrattazioni collettive, normative, sentenze, leggi; anche per questo quasi tutto quello che c’è in queste pagine è stato un tentativo di ricondurre le difficoltà di ciascuno a una dimensione più generale. A un “me too”. L’umano, nel mondo del lavoro, è decisamente fatto a forma di femmina». Portando proprio come esempio le grandi agitazioni dell’autunno caldo che sfociarono nell’adozione dello Statuto dei lavoratori, Soavi riprende le teorizzazioni del Premio Nobel Claudia Goldin e impone di, più che invitare a, ripensare il lavoro, rivolgendosi tanto alla alle imprese private quanto ai singoli lavoratori che dovranno poi diventare massa in rivolta: «Ripensare il lavoro è un’azione che funziona solo se collettiva, cioè politica e sindacale. Certo, di un sindacato e una politica che abbiano come referenti anche le persone normali oltre alla Benemerita impresa Privata, il Tessuto Produttivo del Paese, le nostre Piccole-e-Medie-Imprese-che-sono-il-nostro-fiore-all’-occhiello». Soavi, quindi, ci ricorda anche che camminando sulle spalle dei giganti si può andare molto lontano. Non nostalgia, ma riappropriazione di un sentimento non vetusto, ma sanamente inveterato. Fare rumore insieme, deprecare l’individualismo. Degno di nota, quindi, è proprio il richiamo alle responsabilità degli individui (non senza esentare quelle delle corporazione), un richiamo che con ritrosia si pronuncia per timidezza di squarciare il velo che mistifica trite contrapposizioni novecetesche.
Lo statuto delle lavoratrici. Come ti senti, a cosa hai diritto, dove possiamo cambiare è una boccata d’aria fresca in un dibattito stagnante e sempre uguale. Il suo linguaggio ironico e provocatorio, in qualche passaggio un po’ compiaciuto, è quello del lavoratore che parla ad altri lavoratori, della donna che parla alle donne, della donna che parla agli uomini; una voce che ha attraversato l’insicurezza, il dubbio, il precariato, che di quelle distorsioni del mercato del lavoro ha fatto diretta esperienza e che nella voce collettiva a trovato ragione. Il merito di Soavi sta proprio in questo: mettersi occhi negli occhi con i suoi interlocutori, senza impartire lezioni ma trasmettendo un furore che è tutto generazionale, sottolineando implicitamente il demerito dei padri (sovraesteso) che continuano a parlare di noi e soprattutto per noi. Ci riporta con i piedi per terra dagli iperurani degli stanchi analisti e commentatori e finalmente apre la porta giusta per la chiave della consapevolezza.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Lo statuto delle lavoratrici. Come ti senti, a cosa hai diritto, dove possiamo cambiare
Autore: Irene Soavi
Editore: Bompiani Overlook
Anno di pubblicazione: 2024
Pagine: 318 pp.
ISBN: 978-88-301-0784-7
Prezzo: 20,00€