Sabato 29 marzo 1794, ore 16. In una cella del carcere di Bourg-La-Reine viene trovato il corpo senza vita di un detenuto, sdraiato in terra, le braccia lungo il corpo, la testa piegata da una parte con un sottile rivolo di sangue che usciva dalla bocca. Nei registri, era stato indicato con il nome di Pierre Simon, sedicente cameriere. Lo avevano arrestato due giorni prima, all’interno di un’osteria dove si era rifugiato, stanco e ferito ad una gamba.
Non possedeva documenti, appariva un tipo sospetto e quindi lo avevano condotto in prigione. Il referto attribuì la morte ad un infarto. Fu sepolto in una fossa comune. Solo dopo alcuni mesi si seppe che quello sconosciuto era Marie Jean Antoine Nicolas Caritat, marchese di Condorcet. Filosofo, matematico, economista, enciclopedista, libertario. Una delle più grandi menti dell’illuminismo. Sodale di Voltaire, Diderot, D’Alembert. Aderente alla “Società degli amici dei neri” si batté per l’abolizione della schiavitù ed entrò in contatto con Benjamin Franklin. Aveva 51 anni. Il suo corpo non fu mai ritrovato.
Partecipò attivamente alla Rivoluzione francese. Proprio a lui è attribuita la stesura dei cahiers de doléances. Membro dell’assemblea nazionale, era vicino ai Girondini e questo presunto moderatismo gli attirò i fulmini dei Montagnardi e di Maximilien Robespierre. All’avvento del Terrore fu accusato di tradimento in base alla pazzesca legge dei sospetti e nei suoi confronti fu spiccato un mandato d’arresto.
Certo di dover finire sotto la ghigliottina, riuscì a nascondersi per cinque mesi in casa di un’amica, a Parigi, e qui scrisse l’opera più nota, “Quadro storico dei progressi dello spirito umano”. Poi, sentendosi braccato, fuggì dalla capitale ma due giorni dopo fu catturato e messo dietro le sbarre. La tragica fine, a parte il verdetto ufficiale sull’arresto cardiaco, ha alimentato altre due ipotesi: il suicidio con una dose di veleno che aveva con sé o un omicidio ordinato dal Comitato di salute pubblica per far scomparire un personaggio scomodo senza doverlo portare sul patibolo.
Da quei drammatici giorni, sono passati esattamente duecento anni. Ma dubitiamo che la ricorrenza venga celebrata come meriterebbe. In un mondo che sta facendo vacillare la democrazia, con Donald Trump evocante un bagno di sangue qualora non venisse rieletto presidente degli Stati Uniti, ricordare Condorcet appare quanto meno controcorrente.
Lui teorizzava “la fratellanza universale” e “la totale distruzione dei pregiudizi”, a partire, femminista anzi tempo, da quelli “che hanno stabilito fra i due sessi una inuguaglianza di diritti funesta persino a colui che ne viene favorito”. “Invano – rimarcava – si cercheranno ragioni per giustificarla, differenze fisiologiche, intellettive e di sensibilità morale. Questa ineguaglianza non ha altra origine che l’abuso della forza e, invano, si è poi tentato di giustificarla con sofismi”.
Prima di Kant, il cui trattato è del 1795, riprese il concetto di “pace perpetua” elaborato dall’abate di Saint-Pierre: “Le guerre fra i popoli, quanto gli assassinii, entreranno nel novero di quelle atrocità eccezionali che umiliano e offendono la natura e che imprimono un marchio indelebile di obbrobrio al paese e al secolo la cui storia è stata infangata”.
A suo parere, la ragione e la scienza marciavano di pari passo in direzione di un futuro migliore. È questo il filo conduttore del “Quadro storico” vergato durante la latitanza. Le prime tribù, i popoli pastori, l’invenzione della scrittura, la Grecia, Alessandro Magno, Roma, la decadenza e la rinascita dei lumi, il progresso che scuote il giogo dell’autorità, Cartesio, la rivoluzione. Dieci epoche di un cammino che ha le sue cadute ma non si arresta mai, in costante direzione del progresso. L’allungamento della vita media quale metro per misurare una crescita dai confini indefinibili.
“Questo quadro della specie umana, liberata da tutte le catene, sottratta al dominio del caso ed a quello dei nemici del progresso, e camminando con passo fermo e sicuro sulla strada della verità, della virtù e della felicità, offre al filosofo uno spettacolo che lo ripaga degli errori, dei crimini e delle ingiustizie di cui la terra è ancora macchiata e di cui egli stesso è sovente la vittima”. Così concludeva la sua opera principale, poco prima di essere arrestato e di morire nelle vesti del cameriere Pierre Simon.
Duecento anni dopo, siamo sempre lì.
Marco Cianca