“Una rosa è una rosa è una rosa”. Aveva ragione Gertrude Stein: una cosa è quella che è ed è impossibile cambiarne la natura. Quindi, a ben ragione, si può parafrasare: “Il capitalismo è il capitalismo è il capitalismo”: inutile aggettivarlo, impossibile cambiarne la natura. Magari è possibile provare a declinarlo, aggiornarlo a qualche tendenza o a nuove modalità – e il susseguirsi delle rivoluzioni industriali lo hanno dimostrato. La differenza sta solo nella percezione che si ha di questo fenomeno che fenomeno più non è, essendo il regolatore consolidato – e per questo invisibile – del ritmo circadiano di questo villaggio globale che è la nostra società: iperconnessi da messaggi e merci – o meglio, da merci che sono messaggi. Capitalismo e globalizzazione non hanno mai nascosto la propria essenza e la loro più grande virtù sta esattamente nell’aver agito senza alcun sotterfugio, alla luce del sole. Ma sottilmente, molto sottilmente. Dopo il montare dell’onda lunga di un benessere che sembrava buono, giusto e inarrestabile comincia la risacca e l’inesorabile ritirata del mare scopre macerie e resti del naufragio dell’umanità: povertà, ingiustizia, diseguaglianza, discriminazione, sperequazione, cambiamento climatico. Al largo, però, lo yacht dell’1% di popolazione più ricca del mondo si è attrezzato per rimanere saldamente a galla. La più concreta dimostrazione che chi sentenziava la morte del capitalismo aveva torto: il capitalismo è vivo e sta benissimo. La differenza è che quella percezione poco prima richiamata sta diradando la cortina fumogena che celava il disastro sociale e gli abitanti del villaggio globale hanno (troppo) lentamente cominciato a cambiare il proprio sentimento nei confronti di capitalismo e globalizzazione. Stanno acquisendo consapevolezza e sono all’erta. Sono woke. E se la virtù del capitalismo è il mimetismo, allora occorre che anche il capitalismo si attrezzi e diventi a sua volta woke. D’altronde il mercato detta sì le regole del consumo, ma è anche attento a intercettare il sentiment del pubblico. Un sentimento di rabbia e frustrazione, che alimenta movimenti progressisti promuoventi giustizia sociale e uguaglianza dei diritti contro la furia predatoria che li ha fagocitati (non senza una certa complicità dell’utenza) e che potrebbe democraticamente – e a ben donde – sovvertire l’ordine consolidato della natura. E allora «“capitalismo woke” è divenuto la parola chiave per etichettare il numero sempre maggiore di aziende , soprattutto multinazionali, che si pongono a favore dei movimenti sociali e che utilizzano questo loro schierarsi nelle proprie campagne di informazione e pubblicitarie».
Con il suo Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia (Fazi Editore, 2023) Carl Rhodes, professore di Teorie dell’organizzazione e preside della UTS Business School presso la University of Technology di Sidney, in Australia, mette a segno un testo illuminante per la forza e la concretezza con la quale informa in maniera inedita di una delle rivoluzioni economico-politiche che stanno segnando la contemporaneità, un movimento che parte dal basso, dalle esigenze del popolo, che pure viene assorbito dalle istanze superiori della finanza e manipolato per consolidare la sua posizione di supremazia. Articolato in tredici capitoli, il lavoro di Rhodes ripercorre criticamente la trasformazione diacronica della massima espressa nel 1970 dal premio Nobel per l’economia Milton Friedman, secondo cui «la responsabilità sociale delle imprese è quella di aumentare i propri profitti» e a guidare le imprese dovrebbe essere innanzitutto l’interesse finanziario degli azionisti, non l’interesse degli stakeholder. Ma nel primo decennio degli anni Duemila il primato degli azionisti è stato messo in discussione a seguito degli scandali e delle crisi finanziarie che hanno terremotato il mondo, investendo in pieno l’opinione pubblica che ha cominciato a dubitare dell’efficacia del sistema economico. «Questi eventi sono stati ampiamente considerati il frutto dell’avidità degli amministratori delegati del fanatismo del mercato azionario e degli interessi personali depravati» e per tutta risposta il capitalismo si è attrezzato adottando la responsabilità sociale d’impresa come «il balsamo capace di rendere il primato degli azionisti più accettabile senza sostanzialmente mutarlo. È emersa quindi quella che alcuni definiscono la “massimizzazione illuminata del valore”, in cui “ogni dollaro di investimento in un gruppo di stakeholder aziendali dovrebbe essere giustificato da almeno un dollaro di rendimento atteso su un orizzonte temporale finito”».
Diventando woke, il capitalismo aziendale ha dato prova di tutta la sua vitalità, smentendo in parte le accuse dei commentatori reazionari che temevano un indebolimento dello scopo primario delle imprese di stampo friedmaniano, intaccando quindi il capitalismo stesso. Secondo le destre, infatti, le posizioni politiche progressiste e di sinistra sono ipocrite, soprattutto quando turbano quello che è percepito come l’ordine naturale e intrinseco a un determinato orientamento politico conservatore. Si assiste, quindi, a una moralizzazione delle aziende mediante la RSI, in cui la responsabilità sociale ha assunto il nuovo scopo di estendere il potere delle imprese attraverso una moralizzazione del business. L’intrusione del wokismo nelle aziende, dunque, ha sostanzialmente rafforzato il capitalismo che imbracciando cause civili e sociali – come la lotta al cambiamento climatico, i movimenti Mee Too e Black Lives Matter (cui è dedicata un’ampia quanto interessante trattazione), sanità, ricerca, educazione – si è ammantato di un’aura positiva e progressista, rabbonendo una volta per tutte l’opinione pubblica che ha ripreso a riconoscersi nei prodotti di queste aziende. Rhodes porta numerosi esempi a riguardo: la campagna della Gillette contro la mascolinità tossica, quella della Nike a favore di Diversity e Inclusion attraverso il volto di Colin Kaepernick – ex quarterback dei San Francisco 49ers che ha preso posizione rifiutandosi di alzarsi in piedi durante l’inno nazionale in segno di protesta contro l’ingiustizia razziale; ma anche la redistribuzione dall’alto attraverso le donazioni di Mc Donald’s per i diritti civili della popolazione di colore, quella stratosferica da 10 miliardi di dollari di Jeff Bezos contro il cambiamento climatico, quella della NFL, della Andrew W. Mellon Foundation, di Apple, Facebook, Microsoft e dei magnati della finanza…tutti esempi volti a dimostrare l’intrusione del capitalismo nella filantropia con metodi di investimento sociale basati sul mercato: «Introdurre idee e metodi capitalistici nel settore no profit è un modo per garantire il potere aziendale che va oltre i confini delle attività commerciali dirette dell’impresa […] il risultato è che, per quanto alcuni sintomi della devastazione socioeconomica prodotta sul scala mondiale dal neoliberismo possano ottenere un eventuale sollievo, viene sempre più rafforzato il sistema che li ha generati». Il capitalismo woke è la risposta a tutto ciò e l’ammantarsi di una patina etica da parte delle aziende serve a contenere la percezione degli effetti di disuguaglianza prodotti dal neoliberismo, nonché a contenere le «orde inferocite» pronte a distruggerlo. Queste mega aziende, a ragione, vengono accusate di woke washing: una pratica di marketing e pubbliche relazioni con cui le grandi imprese sperano che, associandosi a cause politiche più che giuste, otterranno il favore dei clienti e, in ultima analisi, un guadagno commerciale. E sì, il punto è stato messo a segno e il lavoro democratico degli attivisti sociali è stato messo in secondo piano rispetto alle mire del capitalismo woke.
Contribuire per contribuire alla società è possibile farlo innanzitutto attraverso la tassazione: è quella “la responsabilità sociale delle imprese”, sostiene Rhodes individuando in questo nodo l’ipocrisia delle aziende che se da una parte sostengono con donazioni e campagne i movimenti progressisti come Black Lives Matter, Me Too, i diritti civili e sociali della comunità LGBTQ+, dall’altra insistono in “un’aggressiva elusione fiscale“ producendo un incalcolabile ammanco fiscale che, altrimenti, i paesi potrebbero investire in efficaci programmi di welfare. La verità, sostiene l’autore, «è che le imprese non hanno né volontà né la capacità di affrontare i reali problemi sociali, ambientali ed economici che il capitalismo neoliberista da alimentato», poiché le buone intenzioni, sebbene accompagnate da elargizioni, non hanno mai prodotto un reale cambiamento nell’inquadramento economico della maggior parte della popolazione mondiale. Anzi, queste disparità perdurano e si acuiscono, così come perdura e si consolida lo strapotere aziendale che ha impiegato il progressismo come arma per consolidarsi. Un maiale con indosso una cravatta.
Se l’impiego del termine woke (che nel suo senso politico rintraccia le sue origini nei discorsi di Martin Luther King e nel movimento per i diritti dei neri negli Usa, poi rinvigorito dal movimento Black Lives Matter) ha subito un ribaltamento, polarizzando da una parte i conservatori che deprecano l’intrusione del progressismo nel capitalismo accusando le imprese di ipocrisia e opportunismo e, dall’altra, i progressisti che sostengono il mezzo-per-il-fine, c’è una terza prospettiva, ritenuta la più pericolosa e inquietante, che è quella sviluppata da Rhodes,: «E cioè che il capitalismo woke sia uno stratagemma da parte delle imprese per assumere il controllo della democrazia. È un mezzo attraverso il quale le società private stanno cercando di sottrarre il potere politico ai governi per trasferirlo nelle proprie mani», laddove la debolezza degli interventi e degli strumenti governativi palesa una sostanziale abdicazione di potere dal pubblico al privato e quindi sarebbe «l’opinione pubblica a chiedere l’intervento delle imprese, poiché i governi hanno fallito». In questo senso il sottotitolo originale al libro è molto più eloquente della traduzione in italiano (pure ottima, lo si riconosce): How corporate morality is sabotaging democracy. Sabotare, non minacciare: molto più raffinato e subdolo. Quando la sacralità delle democrazie rappresentative viene messa in discussione dal capitalismo, si assiste a uno dei pericoli più urgenti da arginare. «Se così fosse […] il capitalismo woke dovrebbe essere contrastato e combattuto su basi democratiche, poiché esso fa sì che gli interessi politici pubblici vengano sempre più dominati dagli interessi privati del capitale globale. Se seguiamo questa linea di pensiero, i problemi per la democrazia sorgono nel momento in cui il peso considerevole delle risorse aziendali viene mobilitato per capitalizzare la moralità pubblica […] è necessario […] non sottovalutare le sue [del capitalismo woke] implicazioni politiche, soprattutto perché queste includono il rafforzamento di uno status quo socialmente sperequato. Le implicazioni del capitalismo woke per il futuro della democrazia sono particolarmente rilevanti, giacché la tradizione democratica che valorizza l’uguaglianza, la libertà, il diritto di espressione e il dibattito tra i cittadini impegnati viene soverchiata da una voce aziendale che declama la propria visione della moralità […] l’ideale democratico vede la prosperità economica al servizio del popolo e non viceversa». In sostanza il capitalismo woke, a dispetto di quanto voglia far credere, perpetua l’esercizio del potere nell’interesse di una minoranza benestante ed è da qui che deriva il monito ultimo di Rhodes: «È il momento di essere woke nei confronti del capitalismo woke. È tempo di essere consapevoli delle sue peculiarità e dei suoi effetti politici. Ed è anche ora di intervenire per condurre il mondo sulla strada dell’uguaglianza».
Anche se a volte ridondante in alcuni concetti e a tratti ambiguo nell’esprimere la sua posizione sulla globalità del concetto di capitalismo woke, la “terza prospettiva” critica proposta da Rhodes risulta particolarmente pregnante, inattaccabile per la complessità di riferimenti ed esempi impiegati intessuti in una trattazione assolutamente godibile. Nessun sensazionalismo, in cui pure sarebbe stato facile cadere vista la temperatura della materia trattata, e contemporaneamente un linguaggio impattante che dà, appunto, una sveglia. Rhodes ci racconta i nostri tempi sollevando strato per strato i livelli di conoscenza per indicarci l’elefante nella stanza, ma tuttavia non rileva la consensuale complicità del popolo democratico a questo sbilanciatissimo sistema di prevaricazione. Il vantaggio della globalizzazione è proprio il potersi avvalere di alternative sostenibili al sistema capitalistico (si fa riferimento solo marginalmente alle pratiche di boicottaggio e dissidenza), pur consapevoli delle strette maglie in cui siamo avvinti. Ma così come si imputa alle imprese woke di perseguire politiche progressiste senza produrre alcun cambiamento sostanziale sul piano materiale, allo stesso tempo non si intravedono suggerimenti efficaci volti a sovvertire il sistema. Consigliare di svegliarci può risultare una pratica fine a sé stessa, laddove l’imperativo intellettuale dovrebbe essere quello di segnare la via, evidenziando la causa ma anche la possibile soluzione al problema. Intanto abbiamo un punto di partenza.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia
Autore: Carlo Rhodes
Editore: Fazi Editore
Anno di pubblicazione: 2023 (Italia)
Pagine: 313
ISBN: 979-12-5967-381-7
Prezzo: 20,00€