Porre e porsi delle domande è la chiave per dischiudere il mondo della fenomenologia. Una buona pratica che sembra caduta in obsolescenza, abituati ormai come siamo ad adattare a inediti contesti, forieri di nuove crisi, vecchi schemi già rodati e pure consumati. Dal ribaltamento di queste prassi, però, scaturiscono prospettive inesplorate che ci consentono di leggere il mondo su una linea evolutiva a lungo termine, un approccio olistico che tenga conto simultaneamente di fattori e vettori che per ritrosia o reazionarismo fatichiamo ancora a tenere in dovuta considerazione. Il buon lavoro. Benessere e cura delle persone nelle imprese italiane (Luiss University Press) saggio scritto a quattro mani da Stefano Cuzzilla e Manuela Perrone, rispettivamente Presidente di Federmanager, CIDA e Trenitalia e giornalista de Il Sole 24 ore, muove esattamente da questi presupposti: che cos’è, oggi, il lavoro? Come è cambiato durante il “tempo delle crisi”? Quali risultanti scaturiscono dalla sua continua risignificazione? E in ultimo, cos’è un buon lavoro? Al centro di questo complesso processo di trasformazione, la cui durata e i cui esiti restano incerti, c’è la persona, e il cambiamento più significativo viene proprio da essa: come ben arguisce Ferruccio De Bortoli nella prefazione, il lavoro non è più concepito nella sua dimensione fordista come componente identitaria su cui si fondano le ragioni di vita, non è più «un tempo sottratto alla vita, alla libertà individuale e collettiva», ma piuttosto ne è «il suo complemento, la sua realizzazione». Un buon lavoro, dunque, «è tale se è soddisfacente non solo sul versante del benessere personale e familiare ma anche e soprattutto se ha una ricaduta positiva sulla comunità». Un assunto, questo, che ribalta la concezione novecentesca del lavoro ingaggiata dai boomers, per cui stabilità e retribuzione erano gli attributi fondamentali del “buon lavoro”, e che piuttosto, grazie alle istanze avanzate da Millennials e Gen Z, inaugura un nuovo corso in cui la cultura lavorocentrica si affievolisce in favore di autonomia, flessibilità di temi e spazi e modalità ibride. Sorprendentemente la retribuzione non è più in cima alla lista dei fattori che orientano le scelte professionali dei giovani che non cercano più il posto fisso, ma il posto giusto, quello che fa stare bene. Dinanzi a questi nuovi presupposti che si impongono dal lato dell’offerta come condizioni imprescindibili, le aziende non possono far altro che adattarsi, accelerando il cambio di passo verso sistemi più sostenibili che richiedono una rinnovata visione delle strategie di attraction e retention, e quindi di implementazione del welfare, del clima aziendale, maggior attenzione al benessere dei propri collaboratori nel soddisfacimento del work life balance, un engagement più coinvolgente e motivante. Migliorare l’equilibrio dell’ecosistema aziendale attraverso una gestione flessibile dei tempi e degli spazi di lavoro, maggiore attenzione alla formazione, ai valori, a sostenibilità, diversità e inclusione.
L’analisi di Cuzzilla e Perrone si svolge sostanzialmente in due parti. Nella prima si delinea il quadro delle trasformazioni che stanno investendo la società e il mercato del lavoro, in cui genere-generazioni-geografia (le 3G) si configurano come le dorsali della diseguaglianza che caratterizzano il lavoro in Italia: il più basso tasso di occupazione femminile – nel 2022, in Italia la quota di donne occupate tra i 20 e i 64 anni è del 55%, a fronte del 69% dell’UE a Ventisette e ancora al di sotto di quel 60% tra le 15-64 anni che era stato indicato come obiettivo da raggiungere entro il 2010 dall’Agenda di Lisbona – ; il più alto tasso di NEET (not in employment, education or training) – nel 2022 non erano impegnati in alcuna attività di lavoro, istruzione o formazione quasi 1,7 milioni di persone tra i 15 e i 29 anni, con un tasso di oltre 7 punti percentuali superiore alla media europea, che è dell’11,7%. ; il mismatch tra domanda e offerta – nella fascia di età giovanile è del 41% per i profili più qualificati (programmatori, infermieri, disegnatori industriali, idraulici, elettricisti)- e la fuga dei cervelli; l’invecchiamento della forza lavoro, aggravato dal fenomeno che il demografo Alessandro Rosina definisce “degiovanimento”, frutto del combinato disposto dell’aumento della longevità e diminuzione della fecondità, e dai cambiamenti normativi che hanno riguardato le pensioni, per cui già nel 2011 il giuslavorista Pietro Ichino ha parlato di “apartheid” per indicare i due mercati del lavoro sempre più separati: quello dei padri, protetto e sindacalizzato, e quello dei figli, flessibile, mobile, precario e liquido. Ma anche una flebile dinamica della produttività e una sostanziale stagnazione dei salari, risultato di un percorso riformatore volto inizialmente alla piena occupazione flessibile della forza lavoro e dell’aumento della competitività dei sistemi produttivi di fronte alla sfida dei mercati globalizzati. Tutto questo, negli anni ma ancora più marcatamente dopo la pandemia, ha esacerbato fenomeni come quelli delle Great Resignation, del quiet quitting (fare il minimo indispensabile per non incorrere in provvedimenti disciplinari) e del job hopping (saltare da un posto all’altro), dovuti sostanzialmente a quello che il Censis registra come «un’irrequietezza e un’insofferenza diffusa verso il proprio lavoro che, con intensità diversa, coinvolge i tanti e diversi protagonisti del lavoro in Italia» e ne rintraccia le cause «tra carriere difficili, retribuzioni lente, ridotta rilevanza della qualificazione e, anche, paure sulla nuova instabilità della propria occupazione». Una totale disaffezione al lavoro e ai valori fino a quel momento incarnati, che però gli autori rileggono in una chiave meno catastrofista: più che di “fuga dal lavoro” si tratta di ricollocazione settoriale, di rimescolamento. Con la pandemia, in sostanza, il sogno di abbandonare il proprio lavoro comune a molte persone sembra essersi fatto realtà e l’Italia malinconica e post-populista dipinta nel 56° Rapporto sulla situazione sociale del Paese pare non più disposta a fare sacrifici: le persone prendono a inseguire i propri desideri, «abbandonando le remore che prima disincentivavano salti nel buio professionali» e seguendo una nuova scala valoriale.
In questa prospettiva «sono indispensabili strategie integrate di politiche industriali e politiche del lavoro per intercettare le trasformazioni senza restarne travolti». E a fronte di questa consapevolezza benessere lavorativo, innovazione e sostenibilità cominciano a rientrare tra le priorità dei leader e dei manager aziendali. Lo dimostrano i risultati delle interviste a «chi, ogni giorno, con il lavoro lavora» raccolte nella seconda parte del libro: dodici interlocutori tra direttori delle risorse umane, head hunter e manager di agenzie di consulenza e servizi per lo sviluppo professionale. Quello che emerge è un plebiscito intorno all’urgenza di un approccio transdisciplinare per favorire il benessere lavorativo e organizzativo all’interno dell’azienda da perseguire attraverso i seguenti princìpi: persone e processi sono entità dipendenti; l’organizzazione è un sistema complesso nel quale tutto è connesso; il benessere lavorativo favorisce la creazione e diffusione di competenze per il cambiamento e l’adattamento a un contesto sempre più volatile e complesso. Un percorso agli esordi che richiede uno stile di leadership orientato al benessere che interpreti il “successo aziendale” sì come perseguimento del profitto (perché resta quello l’obiettivo aziendale), ma senza trascurare la natura, la società, le nuove generazioni, curando «il benessere del proprio team di lavoro utilizzando leve che fino a pochi anni fa erano di esclusiva competenza delle funzioni dedicate al people management». In un quadro polifonico così strutturato, tra le interviste si nota curiosamente l’assenza del punto di vista sindacale, una scelta di cui sarebbe interessante conoscerne le motivazioni vista la complessiva solidità dell’impianto di trattazione.
«Ridare senso al lavoro è la sfida della nostra epoca» , concludono Cuzzilla e Perrone. E se l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, è sicuramente un buon lavoro, un lavoro di qualità, a rendere grande il Paese. Per garantire qualità al lavoro occorre sì che l’impresa adotti «politiche organizzative in grado di valorizzare le persone», ma anche di un legislatore attento e lungimirante che incoraggi queste politiche «in modo che diventino patrimonio diffuso e non restino appannaggio di poche realtà illuminate […] Il lavoro che cambia ha bisogno di una visione strategica, perché è il Paese a cambiare insieme al lavoro». Il driver del cambiamento proattivo è quindi fondamentale, la parola chiave dell’intero testo e processo che necessitano di un approccio molto più umanistico di quanto fatto finora. Riprendendo il monito di Muhammad Yunus, Premio Nobel per la pace: «Se non cambiamo idea, non possiamo cambiare il mondo», Cuzzilla e Perrone esortano a «cambiare senza lasciarsi cambiare passivamente dagli eventi», accendendo i riflettori su ciò che sta mutando intorno a noi: demografia, mercato, disuguaglianze, produttività, salari, politiche e strumenti di welfare, ma anche aspirazioni e desideri.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Il buon lavoro. Benessere e cura delle persone nelle imprese italiane
Autori: Stefano Cuzzilla, Manuela Perrone
Editore: Luiss University Press – Collana Bellissima
Anno di pubblicazione: Dicembre 2023
Pagine: 207 pp.
ISBN: 125-59-601-40
Prezzo: 18,00€