Non sono proprio positive le prospettive per il nostro paese. Se lo sguardo si allunga nel tempo, cercando di scorgere cosa ci attende, il panorama che si prospetta è desolante. L’Italia resta un paese piccolo e debole, incapace di superare gli ostacoli, privo delle capacità che possano far compiere un passo in avanti. L’unica forza sembra essere l’Europa, ma sono troppi coloro che non se ne accorgono o non vogliono tenerne conto nella ricerca affannata di benefici piccoli e transitori. Anche le, poche, notizie confortanti non riescono a sollevare gli animi, perché a raschiare la patina di superficie mostrano fragilità pericolose.
Come è accaduto quando l’Istat ha reso noti gli ultimi dati sull’occupazione. Un risultato sorprendente, con oltre 450mila posti di lavoro in più e in gran parte a tempo indeterminato. Bene, è quanto aspettavamo da tempo. Poi però si fa mente locale e si prende atto che crescono i posti di lavoro, ma la crescita resta ferma e, di conseguenza, la produttività del sistema scende. E la mancata crescita della produttività costituisce la grande falla che mostra tutta la fragilità della nostra economia.
L’ultimo grave allarme è venuto per l’automotive, un settore importante, che in passato ha fatto la fortuna del nostro paese e che adesso è in rotta. Al di là delle polemiche politiche, resta il fatto che Stellantis con tutta probabilità rinuncerà presto ad almeno uno dei grandi stabilimenti italiani di produzione, a provare che la fusione con i francesi è stata una resa che ci ha indeboliti ed esposti alle decisioni di altri. Il ministro Urso afferma che non tutto è perduto e che l’Italia punta a produrre un milione di auto l’anno. Bene, benissimo, ma non si vede come ci si potrà riuscire dato che nessuno lavora per questo obiettivo e che oltre le parole non si va. Perché non c’è traccia di politica industriale nel nostro paese, non da adesso, da almeno quarant’anni e forse anche più. E senza un adeguato disegno di politica industriale è difficile che piovano investimenti.
Il problema di fondo è che non si intravede chi possa intervenire, data l’assenza di una capace classe dirigente. Non è un problema solo italiano, è vero, ma da noi il quadro è sconsolante. Un esempio per tutti, la corsa alla presidenza di Confindustria. In una bella intervista a Dario Di Vico su Corriere Economia, Innocenzo Cipolletta ha chiarito, al di là di qualsiasi dubbio, che la confederazione degli industriali è in una situazione molto difficile, per uscire dalla quale sarebbe necessario un grande presidente e un grande direttore generale. Ma dove si potrebbero trovare le persone giuste?
Gli attuali candidati alla presidenza sono tutte brave persone, ma nessuna sembra brillare, nessuna appare in grado di compiere il miracolo. E le recenti scelte dei direttori generali di Confindustria mostrano la difficoltà di fondo a trovare le persone giuste. E se si guarda alla politica lo sconforto cresce invece di calare. L’opposizione è incerta e indecisa, debole e dilaniata. La maggioranza sembra più compatta, ma anche qui non si riesce a trovare una personalità in grado di portare il paese verso mete elevate. I leader del partito più forte sono la Meloni e La Russa, francamente un po’ poco, anche la presidente del Consiglio appare sostanzialmente debole, non certo una statista. E se si guarda dietro le quinte, per esempio a Palazzo Chigi, la figura più rappresentativa sembra Alfredo Mantovano, poco più di un Gianni Letta in sedicesimo. Non parliamo della cultura, che dai tempi del berlusconismo è entrata in una procurata profonda crisi, dalla quale non sembra riprendersi.
Insomma, siamo in difficoltà e ci mancano punti di sostegno per tentare una risalita. Forse dovremmo mettere le mani sui sistemi di selezione della classe dirigente e dovrebbe cadere l’abitudine, nefasta, della cooptazione, per la quale chi deve scegliere un successore preferisce premiare chi è un po’ più modesto, chi non brilla troppo, per evitare di sfigurare in un successivo paragone. Una pratica antica, che dovrebbe essere abbandonata, ma chi ha la volontà e la forza di farlo?
Le speranze sono o dovrebbero essere allora sulle nuove generazioni. Ma è possibile attendersi qualcosa? Difficilmente i giovani saranno in grado di scalfire un sistema che tende ad escluderli ed è molto resistente a qualsiasi attacco. E non è un caso se i più motivati se ne vanno via, in altri paesi più accoglienti. Le speranze sono al lumicino.
Massimo Mascini