Ho molto apprezzato l’articolo di Nunzia Penelope «Quei “misteri” del mercato del lavoro che nessuno ha la curiosità di scoprire». L’ho ritenuto un lavoro intellettualmente onesto, perciò coraggioso, perché – purtroppo – occorre del coraggio ad essere onesti in un contesto dove si è giudicati “politicamente corretti’’ soltanto se ci si adegua in toto all’appartenenza. Dopo aver richiamato all’attenzione il caso degli inattivi Penelope aggiunge: “I numeri tuttavia dimostrano un quadro diverso: più che mancare il lavoro e aumentare la precarietà sta succedendo l’opposto. Fra il terzo trimestre 2022 e il terzo trimestre 2023 l’occupazione in Italia è aumentata di 470.000 unità: tutti gli indicatori che riguardano le componenti dell’occupazione mostrano un segno positivo, mentre il solo segno negativo è proprio quello dei contratti di lavoro a termine, calati in un anno di 89.000 unità (-2,9%). Ma non solo: il fenomeno più serio e grave è quello che ha visto, tra il 2012 e il 2022, crollare la base occupazionale formata di giovani tra i 15 e i 34 anni, scesa di 360 mila unità, di cui ben oltre la metà nel sud (meno 188.000), mentre al contrario sono aumentati gli over cinquanta di ben 2,7 milioni’’. Anche per questi fenomeni ci sono spiegazioni con caratteristiche oggettive a cui non si è prestata la dovuta attenzione fino a quando i dati hanno trasmesso dei segnali drammatici. “Anche questo non è un dato sconosciuto – scrive ancora Penelope – per chi segue le dinamiche del mercato del lavoro confrontandole con quelle della demografia, ma fatica ad essere realmente assimilato dall’opinione pubblica e anche da buona parte dei decisori. Eppure, è proprio la demografia a spiegare molti fenomeni, tra cui anche la misteriosa scomparsa, o quasi, dei contratti a termine. Riducendosi sempre più il numero di giovani sul mercato del lavoro le aziende sono costrette a rivolgersi alle fasce di età superiori, cioè adulti già ben formati che ovviamente non accetterebbero il contrattino a termine che si può offrire a chi si trova alle prime armi’’. A queste considerazioni se ne potrebbero aggiungere altre, che chiamano in causa il “grande amore’’ delle pensioni.
Al di là dei problemi di carattere finanziario, di sostenibilità del sistema e di adeguatezza delle prestazioni. Il vero “buco nero’’ è quello demografico chiuso nella morsa tra invecchiamento e denatalità. Nessun sistema pensionistico finanziato a ripartizione è in grado di reggere se i pensionati appartengono a generazioni numerose (nel 1964 nacquero in Italia 1,1milioni di bambini), che hanno iniziato presto a lavorare in modo stabile e continuativo e che si sono presentati all’appuntamento con la pensione da anziani/giovani avendo davanti a sé un’attesa di vita che è aumentata in media di un anno ogni decennio. Negli ultimi quattro decenni (fonte – itinerari previdenziali) la speranza di vita alla nascita è passata da 69,6 anni nel 1976 a 80,6 nel 2016 per gli uomini e da 76,1 a 85,1 per le donne. Un 65enne ha visto crescere la propria speranza di vita residua di circa 5-6 anni e un 80enne di 3 anni. Ciò in un contesto in cui, nel caso del pensionamento anticipato (prevalente per gli uomini) non aveva nessun effetto economico nel sistema retributivo l’età del pensionamento. Aveva il medesimo trattamento economico chi maturava il requisito contributivo a 60 anni o ad un’età superiore; ma il primo percepiva il medesimo trattamento del secondo a parità di altre condizioni per un tempo più lungo. Se il fenomeno dell’invecchiamento allunga il tempo in cui viene percepito il trattamento, quello della denatalità – che non può essere invertito se non nell’arco di decenni e di generazioni, ammesso che non sia già troppo tardi – comporta conseguenze rilevanti sulla popolazione, sul mercato del lavoro, per un motivo piuttosto banale: le coorti che devono subentrare a quelle che escono dal mercato del lavoro non potranno farlo se non in parte per il semplice fatto che le prime hanno avuto tassi di natalità molto inferiori delle seconde. Nel 2023 in Italia (fonte –Istat) si contano circa 10 milioni 200mila giovani in età 18-34 anni; dal 2002 la perdita è di oltre 3 milioni (-23,2%). L’Italia è il Paese Ue con la più bassa incidenza di 18-34enni sulla popolazione (nel 2021 17,5%; media Ue 19,6%).
Ma torniamo al mercato del lavoro. Oltre ai richiami di Penelope vanno segnalati quelli di tanti economisti al di sopra di ogni sospetto come Tito Boeri e Roberto Perotti. In un articolo su Repubblica (giornale che non fa certo sconti all’attuale governo) i due economisti hanno scritto nei giorni scorsi: “Le buone notizie che vengono dal mercato del lavoro – nel terzo trimestre l’occupazione è aumentata del 2% rispetto allo stesso periodo del 2022 – vengono accolte con un misto di stizza e scetticismo. Ma come – aggiungono – non doveva essere l’anno del precariato? Non ci sarà un trucco? Perché l’occupazione cresce nonostante l’economia sia quasi in stagnazione? Ne abbiamo letto di cotte (nel senso disperatamente alla ricerca di ragioni per sminuire l’importanza di questo risultato) e di crude (nel senso di improvvisate) in questi giorni”. Proseguendo Boeri e Perotti stigmatizzano i commenti di chi ha sostenuto che l’incremento occupazionale è derivato dalla mancata abolizione della riforma Fornero e pertanto molti lavoratori non sono stati in grado di andare in pensione. “In altre parole – scrivono – invece di maggiore creazione di lavoro dovuta ad assunzioni ci sarebbe stata meno distruzione di lavoro (a seguito di licenziamenti e dimissioni)’’. È vero: ci sono reticenza ed imbarazzo a condividere le considerazioni di Penelope, che poi sono le stesse di Francesco Seghezzi su ADAPT: “L’andamento del mercato del lavoro italiano è caratterizzato, ormai da diversi trimestri, da un trend positivo che ha portato a superare negli ultimi mesi diversi record. Primo tra tutti quello del numero di occupati, ma anche il numero di occupate donne, quello degli occupati a tempo indeterminato e altri ancora’’. Certo, non abbiamo scalato delle posizioni nella classifica europea; restiamo sempre in coda.
Tuttavia, invece di analizzare questo fenomeno inedito ed inatteso, determinato da tanti elementi a lungo sottovalutati (come, appunto, i trend demografici) che riducono inevitabilmente – soprattutto in talune coorti – il denominatore ovvero le platee su cui si calcolano i tassi; invece di porsi il problema di come affrontare un mismatch e una quota di posti vacanti importanti e in aumento, che coesistono con un elevato tasso di disoccupazione, la linea generale continua ad essere quella di rincorrere il lavoro marginale e precario sul terreno normativo, come se bastassero norme abrogative delle leggi pirata sul mercato del lavoro per ripristinare livelli di occupazione stabili e tutelati (magari con il ripristino dell’articolo 18 dei bei tempi che furono).
Penelope, poi, nel suo articolo si allarga in considerazioni riguardanti il nuovo rapporto dei giovani nei confronti del lavoro che deve poter consentire di coltivare e curare altri aspetti del vivere civile, dell’esistenza, degli interessi e degli affetti. Sono problemi questi di cui sembrano occuparsi più le aziende che i sindacati come se fossero aspetti che ognuno affronta da sé. Invece si stanno aprendo aspetti di conciliazione vita e lavoro che vanno ben oltre quelli tradizionali (peraltro tuttora irrisolti) e che devono trovare una risposta nell’organizzazione del lavoro, negli orari e nel welfare aziendale. Poi c’è li problema delle retribuzioni con la giaculatoria che sono troppo basse rispetto al resto dell’Europa. Eppure in Italia abbiamo un tasso di sindacalizzazioni tra i più elevati anche tra gli attivi; il 97% dei lavoratori è ‘’coperto’’ da contratti stipulati da Cgil, Cisl e Uil; i contratti pirata coinvolgono lo 0,3% dei lavoratori, nonostante il loro numero crescente. Vogliamo fare degli esempi? Nel settore metalmeccanico i contratti depositati presso l’archivio nazionale del CNEL sono in effetti 48; di questi ben 40 non sono applicati neanche a mille lavoratori. Ma non solo: i cinque contratti collettivi più applicati, che coprono, da soli, il 99,51% dei lavoratori del settore sono stati sottoscritti congiuntamente da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil. Persino nel difficile settore terziario, distribuzione e servizi, sul totale di 96 CCNL depositati, soltanto 16 contratti trovano applicazione per più di mille lavoratori. Inoltre, dei quasi tre milioni di lavoratori l’83,20% è coperto dal CCNL stipulato da Confcommercio e dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil di gran lunga il più applicato, con un ulteriore 11,80% dei lavoratori comunque garantito da uno degli altri tre contratti nazionali di categoria stipulato dalle medesime federazioni sindacali. Chi deve rispondere dei salari degli italiani?
Giuliano Cazzola