Il primo round del lungo duello che ci aspetta si è svolto nell’aula della Camera mercoledì 24 gennaio, e l’ha vinto a sorpresa Elly Schlein. Il colpo che ha messo al tappeto Giorgia Meloni la leader del Pd l’ha assestato sulla sanità, quando ha fatto notare alla premier che il primo, pesante taglio della spesa per la salute è avvenuto nel 2009, quando al governo c’era Berlusconi e Meloni era ministro, seppure della gioventù. Certo, negli anni successivi al governo e nella maggioranza c’è quasi sempre stato il Pd (tranne durante il Conte 1) e dunque il partito di Schlein ha avuto più di dieci anni di tempo per correggere il tiro, ma non l’ha fatto o non l’ha fatto abbastanza. Certo l’attuale segretaria non c’era, non era neanche iscritta al partito, dunque difficile dare a lei la colpa di quel che il suo attuale partito non ha fatto.
Invece Meloni, non solo c’era nel 2009, ma ormai è al governo da 16 mesi, come le ha fatto notare proprio la leader dem. Dunque il tempo per correggere la rotta l’ha avuto, tanto più dopo (anzi durante, visto che è ancora in corso) la pandemia del Covid. Tutti o quasi hanno detto che bisognava aumentare le risorse per la sanità, che i medici e gli infermieri non bastavano, i macchinari erano e sono pochi e vecchi, per poter fare una tac in ospedale bisognava e bisogna aspettare mesi, e via dicendo. Oggi la situazione è rimasta tale e quale (anche se il governo ha stanziato risorse per assumere un po’ di medici), e non potrà che peggiorare visto che la maggioranza di destra ha già approvato al Senato la legge sull’autonomia differenziata, che delega alle Regioni ancora più potere sulla sanità, quando il periodo caldo della pandemia ha dimostrato quanto fosse sbagliata questa politica e in molti, politici, amministratori, operatori sanitari hanno sostenuto (non solo a sinistra) che si sarebbe dovuto riportare la questione sotto il controllo dello Stato centrale. Invece niente, come se nulla fosse accaduto, e ancora accade, l’Italia va nella direzione opposta.
Ma la sanità è solo il primo degli argomenti su cui si misureranno Schlein e Meloni nei prossimi mesi. Prima in televisione, nell’atteso duello che probabilmente condurrà Bruno Vespa (un giornalista sub-partes) e poi nelle urne. Ammesso ma non ancora concesso che entrambe si candidino alle elezioni europee di giugno.
Nel frattempo tuttavia si deve sottolineare la buona prestazione della Schlein, che è anche riuscita a parlare un italiano comprensibile e a uscire dal suo mondo dei diritti individuali, transgender, gay, lesbiche eccetera. Non perché si tratti di questioni secondarie, tutt’altro, ma per la semplice ragione che dal principale partito della sinistra ci si aspetta molto di più. Chiamiamolo progetto, un progetto di paese, che oggi in molti chiamano visione. Ecco la domanda allora è questa: riuscirà la segretaria a inchiodare la premier su tutte le materie che toccano la vita degli italiani? E quindi riuscirà anche a tacitare i malumori che circolano nel suo partito, dove in molti non vedono l’ora di farla fuori per sostituirla col primo – o ultimo che passa -, da Paolo Gentiloni a Enzo Amendola?
Domande che attualmente non hanno risposta perché molto, forse tutto, dipenderà da come la leader saprà gestire la campagna elettorale, a cominciare dalla decisione di candidarsi oppure no. Quasi tutti, da Prodi a Bersani, passando per i cosiddetti riformisti del Pd, la sconsigliano di mettersi in gara: se invece lo farà, l’ha ammonita lo stesso Prodi, allora poi ti devi trasferire a Bruxelles. Non sarebbe serio candidarsi, essere eletta, e poi rinunciare al seggio. Dopo per altro aver penalizzato le altre donne visto che, secondo lo Statuto del partito, le liste vanno composte in maniera alternata, tra uomini e donne: quindi se lei si candidasse come capolista in tutte le circoscrizioni, al secondo posto bisognerebbe mettere un uomo.
Meloni invece se ne frega (ops…), ha già spiegato che coloro che la voteranno sanno benissimo che lei non lascerà palazzo Chigi. Dunque ha più libertà della sua antagonista, d’altra parte nel mondo della destra oggi lei è leader incontrastata ed è l’unica in grado di raccogliere più voti del suo partito e di tutta la coalizione messa insieme. Saranno dunque mesi durissimi per la segretaria del Pd, qualsiasi scelta farà. Se si candida, il suo partito le si mette contro, se non si candida, e le elezioni vanno male, le daranno tutta la colpa della sconfitta. Contemporaneamente dovrà anche guardarsi le spalle dal suo pseudo alleato Giuseppe Conte, il quale ha un solo obiettivo: prendere più voti del Pd. L’unica via d’uscita temporanea per Elly è sconfiggere Giorgia, almeno nel duello televisivo. Poi chi voterà, vedrà
Riccardo Barenghi