L’Italia torna agli Oscar con il film Io capitano, diretto da Matteo Garrone, candidato nella categoria “Miglior film internazionale” per la corsa all’Academy Award del 2024. E se di orgoglio nazionale proprio si deve parlare, questa notizia è forse la più adatta, ancor di più se si smonta il pregiudizio che un film appartenga solo al regista o alla star di turno e si ricorda che la realizzazione di un prodotto cinematografico è frutto della collaborazione di una grande squadra fatta di tecnici e maestranze senza i quali non sarebbe stato possibile raggiungere il risultato. Nel caso di Io capitano, quindi, a essere candidato agli Oscar non è solo il film in sé per sé o il regista, ma anche – tra gli altri – il direttore della fotografia Paolo Carnera, il montatore Marco Spoletini, gli sceneggiatori Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, lo scenografo Dimitri Capuani, il costumista Stefano Ciammitti, il produttore Paolo Del Brocco. Più che una semplice candidatura, questa è la vittoria di un intero comparto artigianale.
Se l’approdo al Kodak Theater di Io capitano – già vincitore, tra i premi, del Leone d’argento per la miglior regia al festival di Venezia e candidato in numerose altre competizioni – è quindi anche una conferma della rivalsa per il cinema italiano, che torna nella più importante competizione cinematografica dopo la candidatura nel 2022 di Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, lo è ancora di più per la storia che racconta – il viaggio di Seydou e del cugino Moussa dal Senegal verso le coste dell’Italia, attraversando il Mali e il deserto del Niger, per restare bloccati i due diversi centri di detenzione in Libia prima di riuscire a prendere il mare su un’imbarcazione di fortuna insieme ad altre centinaia di disperati. Quello che colpisce di questo film è la totale assenza di buonismi, una storia inedita raccontata finalmente senza pietismi o sensi di colpa. E si usa l’aggettivo “inedita” perché la narrazione segue due adolescenti tutto sommato sereni, il cui milieu non è di guerra e patimenti, ma sono mossi dalla sola aspirazione di raggiungere il sogno occidentale e diventare qualcuno, indossando le magliette dei grandi club di calcio, ossessionati dalla musica rap e invasi dalla grande illusione dell’Eldorado occidentale filtrato dai social network. Al termine di un viaggio estenuate e brutale, in cui i due protagonisti (ma non solo) sono costretti a subire torture e vessazioni, resta la forza di un urlo disperato alla vita, dell’essere qui e ora e dopo chissà.
Dall’annuncio di inizio lavorazione fino al suo approdo sugli schermi, Io capitano ha accesso un animato dibattito pubblico dacché l’immigrazione è l’issue esogena della politica italiana più strumentalizzata e oggetto di scontri: il film è stato salutato dalle sinistre come verbo messianico, forse per colmare un vuoto all’interno della loro prospettiva, e dalle destre come affronto diretto alle politiche governative, che della lotta all’immigrazione clandestina e della regolamentazione degli ingressi hanno fatto bandiera (nonché, si aggiunge, come ennesima riprova del monopolio rosso in materia di cultura…sic!). Un doppio affronto, inoltre, per le destre, poiché il racconto è stato realizzato da autori italiani: come si può essere indulgenti nei confronti di tale fenomeno se l’Italia, porta d’Europa, è costretta a subire le conseguenze più impattanti degli sbarchi? Ma l’intelligenza autoriale di Garrone&co. ha spazzato via le insinuazioni e l’insensatezza di questo vetusto asse di polarizzazione opinionistica, mettendo al centro del racconto una delle tante verità del fenomeno migratorio, quella più temibile e meno battuta cui si è accennato: non la fuga dalla disperazione, ma un viaggio che si intraprende perché si è giovani e si ha voglia di conoscere il mondo per cercare un’alternativa migliore. Un viaggio di formazione, in cui si parte giovani e si arriva uomini, raccontato nella congiuntura storica più difficile e forse, per questo, più adatta per fare breccia nell’ostilità dei paesi ospitanti. Lo stesso viaggio che, in scala, affronta ogni persona, al netto di sofferenze e atrocità.
Al di là degli indiscussi meriti artistici, è interessante immaginare quali siano le motivazioni sottese alla nomination di Io capitano nella cinquina: per il proverbiale senso di colpa occidentale? Per una questione di quote delle tematiche sociali? O forse per un atto di ritrovata coscienza sull’urgenza di alcune emergenze che hanno portato la contemporaneità al suo boiling point? Moralmente, che Io capitano vinca o meno la statuetta d’oro poco importa (sì, certo, senza ipocrisia: farebbe tanto piacere e ce lo auguriamo tutti), perché il risultato migliore ce lo siamo già portati a casa: se ne è parlato, ne stiamo parlando e continueremo a parlarne. Ed è questo il più grande successo di un prodotto d’arte: dare l’input affinché le cose, i pensieri, cambino.
Elettra Raffaela Melucci