Mancano pochi mesi al via di una nuova corposa stagione di rinnovi contrattuali. Il panorama è peraltro già affollato perché stanno fallendo tutti i tentativi, numerosi, di chiudere le trattative per i contratti del terziario e del turismo, scaduti da parecchi anni e che riguardano 5 milioni di lavoratori. Finora è stato possibile solo raggiungere accordi su acconti salariali per far fronte all’inflazione, ma le trattative per il rinnovo sono tutte fallite. Forse sarebbe necessario un intervento politico, come si faceva una volta, ma questo è un altro discorso. Il ministero del Lavoro, cui spetterebbe il compito di convocare le parti, non sembra interessato alla questione.
Il punto è che nei prossimi mesi vengono a scadenza tutti o quasi i grandi contratti dell’industria, e saranno allora più di dieci milioni i lavoratori in attesa di un accordo contrattuale che riveda i parametri retributivi e riscriva la mappa dei diritti e doveri di chi lavora. L’industria fino ad ora è stata molto virtuosa a proposito dei rinnovi. I contratti sono stati sempre risolti in breve tempo, a volte anche prima della scadenza, gli aumenti salariali sono stati anche generosi, almeno prima della crescita abnorme dell’inflazione che ha fatto sballare tutti i conti. Comportamenti virtuosi, culminati nelle settimane passate con l’accordo che hanno raggiunto i Chimici per anticipare una rata degli aumenti salariali previsti, sempre al fine di alleviare i disagi creati dalla crescita del caro vita. Ci si potrebbe quindi ragionevolmente attendere anche stavolta un riscontro veloce della volontà di rinnovare i contratti. La stagione potrebbe scivolare via senza fare danni.
Ma l’impegno potrebbe rivelarsi difficile da rispettare, perché il modello contrattuale è usurato, avrebbe bisogno di una risistemazione, che però non è alle viste. I problemi da affrontare sono molti. C’è quello salariale, forse il più grave di tutti. L’accordo oggi in vigore, fissato dal Patto della fabbrica del 2018, prevede infatti aumenti calcolati sul valore dell’Ipca, ossia sul dato dell’inflazione registrata, depurata dagli aumenti dei prezzi dei prodotti energetici importati. I salari, dunque, crescono del valore dell’inflazione senza però tener conto dei prezzi dell’energia. In tempo di crisi energetica, mentre le quotazioni del petrolio e del gas crescevano in maniera esponenziale, questo sistema andava bene, ha aiutato. Adesso però la situazione si è ribaltata, i prodotti energetici non crescono più, semmai diminuiscono (almeno fino all’ennesima crisi del Golfo), mentre i prezzi degli altri beni, soprattutto di quelli alimentari, sono molto cresciuti. Ci sarebbe quindi qualcosa da rivedere, delle decisioni da prendere, ma ribaltare le indicazioni di un accordo interconfederale non è cosa facile.
Sempre in materia salariale ci sarebbe da considerare con attenzione il nodo della durata degli accordi. Come ha stabilito il Patto della fabbrica, i contratti restano in vigore tre anni, poi scadono. Ma definire un aumento salariale che vada bene per i successivi tre anni è sempre più difficile. L’instabilità economica consiglierebbe di accorciare questo periodo, magari tornando alle regole stabilite nel 1993, quando i contratti valevano quattro anni, mentre l’aumento retributivo veniva ridiscusso dopo due anni. C’è anche chi preferirebbe accordi validi un solo anno, alla maniera dei tedeschi. E ancora, ci sarebbero da adeguare i sistemi di calcolo, perché qualche contratto prevede che il conteggio si faccia ex ante, prevedendo quello che accadrà, altri ex post, fissando cioè gli aumenti una volta calcolato l’andamento del costo della vita.
L’elenco delle cose che non funzionano e andrebbero corrette potrebbe proseguire a lungo. Perché la stagione contrattuale andrebbe preceduta da un’analisi puntuale dei regimi di orario praticati. Le soluzioni trovate, anche nelle contrattazioni di azienda e di filiera, sono le più varie, adesso in molte realtà si è cominciato a far lavorare le persone per soli quattro giorni la settimana, anche senza ritoccare il salario. È evidente che le suggestioni sono tante, ma manca una regola precisa. Per non parlare di formazione, cruciale in presenza delle tante transizioni che ci prepariamo ad affrontare o stiamo già affrontando. O di partecipazione, che, specialmente ora che l’iniziativa legislativa della Cisl sta andando avanti, può diventare per tutti un altro tema da affrontare.
Insomma, l’appuntamento con tante difficili negoziazioni è alle porte, ma gli attori non sono ancora pronti. Sarebbe servita una grande trattativa interconfederale, meglio se triangolare, ma non è stato possibile per tanti motivi. Adesso è tardi, perché manca Confindustria: solo a maggio insedierà la nuova presidenza, quindi è escluso che un qualche confronto possa iniziare prima. A parte il fatto che il governo Meloni non sembra attento al tema, e anche alcuni sindacati, del resto, non guardano con molto interesse a un altro grande negoziato.
Le federazioni di categoria, sia sindacali che datoriali, sui rinnovi dei contratti si muoveranno dunque in autonomia, ciascuna per conto proprio. Un salto nel buio, senza regole, che non sembra proprio il metodo migliore. C’è da sperare che almeno i sindacati si diano una coordinazione, anche già solo questo potrebbe garantire un certo ordine. Nel 2009, dopo l’accordo separato, senza la Cgil, che nel gennaio di quell’anno aveva stabilito nuove regole per la contrattazione, le categorie della confederazione di Corso Italia si mossero in maniera abbastanza compatta e riuscirono a salvare una stagione di rinnovi contrattuali che si preannunciava molto difficile. Forse non sarebbe male che qualcuno se ne ricordasse.
Massimo Mascini