Il 16 giugno del 1944 il “Risorgimento”, unico quotidiano di Napoli in quel periodo, intervistò Giuseppe Di Vittorio. Da qualche giorno era stato ufficializzata la “Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale”. Le due cartelle dattiloscritte portavano le firme dello stesso Di Vittorio per i comunisti, Achille Grandi per i democristiani ed Emilio Canevari per i socialisti. Sotto il testo, passato alla storia come Patto di Roma, mancava il nome del suo principale artefice, Bruno Buozzi, trucidato in località La Storta, sulla Cassia, dai nazisti in fuga dopo averlo prelevato dalla prigione di via Tasso dove era rinchiuso.
Commemorandolo un anno dopo, il 3 giugno 1945, al Verano, assieme a Giovanni Gronchi e a Giuseppe Emanuele Modigliani, il segretario della Cgil, avrebbe ricordato come tutti loro consigliassero a “questo sacerdote della libertà”, durante le riunioni clandestine nella capitale occupata, di essere prudente, di stare a casa, di uscire il meno possibile. “Ma lui continuava a lavorare e a sfidare impavido il pericolo. Ci rispondeva: non vi preoccupate. In questo momento, mentre si avvicina la Liberazione, noi dobbiamo stringere per concludere il patto dell’unità sindacale, l’unità sindacale è necessaria come l’aria ai lavoratori italiani, è indispensabile per la resurrezione del movimento operaio italiano, è indispensabile per la rinascita dell’Italia. Allora qualsiasi sacrificio si deve affrontare per realizzare questo ideale, questa grande conquista”.
Quell’orazione funebre, pronunciata con appassionata commozione per ricordare “il primo assertore, il primo artefice, il martire dell’unione sindacale, di questo bene supremo che è anche onore e vanto dei lavoratori italiani”, finora inedita, meriterebbe di essere pubblicata per intero. Ma anche l’intervista al Risorgimento di Napoli, ben poco conosciuta, serve a capire la tensione unitaria che animava i protagonisti di allora.
“Il movente dell’accordo – spiegava Di Vittorio- consiste nella preoccupazione comune dei militanti sindacali delle tre correnti di unificare le forze del lavoro, per potenziarle al massimo grado, allo scopo precipuo di difendere più efficacemente gli interessi economici e morali dei lavoratori, che si identificano con gli interessi generali del Paese. E ciò, sia nella fase attuale- in cui il compito principale è quello di aumentare il contributo italiano alla guerra di liberazione nazionale contro i tedeschi e i loro servi fascisti-sia nella fase successiva della ricostruzione economica, politica e morale dell’Italia”.
“Del resto- continuava rispondendo alle domande di un anonimo giornalista -la sanguinosa dittatura fascista e la guerra antinazionale e catastrofica in cui essa aveva gettato il Paese hanno accomunato nello stesso dolore, nella stessa oppressione schiavistica e nella stessa miseria i lavoratori e gli italiani liberi senza distinzione di opinione politica e di fede religiosa. È naturale quindi che le sofferenze comuni inducano i lavoratori di ogni corrente a unirsi per lottare più efficacemente contro la causa di esse e per preservare il nostro popolo da ogni possibilità di ritorno di un tale regime sotto qualsiasi forma”.
Adamantina la conclusione: “I lavoratori di ogni corrente non detestano nulla di più delle loro divisioni. Tutti sono entusiasti della loro unità sindacale, la quale aggiunge, al vantaggio del maggior potenziamento delle forze del lavoro, il diritto incontestabile per ognuno di professare nella causa comune del lavoro qualsiasi fede politica e religiosa. L’unità, naturalmente, presuppone la rinuncia a tutti i settarismi, l’abitudine alla tolleranza e al rispetto reciproco di tutte le opinioni. Il che farà sorgere nuovi rapporti di fraternità fra i lavoratori manuali e intellettuali delle varie correnti e avrà un’influenza salutare sulla stabilità politica della democrazia italiana e anche sui rapporti tra i vari partiti democratici e progressivi del paese”.
Quell’intervista venne riprodotta, con una bella introduzione di Alessandro Piccioni, dai Quaderni di Rassegna sindacale, settimanale della Cgil, nel numero di marzo-aprile del 1984. Erano i giorni tempestosi del decreto sulla scala mobile con una divisione tra le confederazioni che ricordava il trauma scissionistico del 1948. A riprova che la tela tessuta da Buozzi e Di Vittorio non si è mai del tutto lacerata.
In questa Italia confusa, cinica, immemore, incanaglita, nella quale metà della ricchezza è in mano al cinque per cento delle famiglie, l’industria va a ramengo e la seconda carica dello Stato reputa legittimi i saluti romani, una nuova unità sindacale potrebbe scatenare la stessa forza propulsiva che ebbe nel 1944.
Non ci si arriverà, ma è bello pensarlo.
Marco Cianca