Mauro Magatti dalle colonne di Avvenire ci ha parlato in questi giorni della ricchezza profonda di cui il nostro paese dispone. A suo avviso l’Italia non se la passa proprio bene. La spinta che veniva dalle lotte della classe operaia si è progressivamente spenta. La rivoluzione liberale che ne poteva prendere il posto è stata disattesa. L’Europa si è rivelata matrigna. Il paese da 30 anni è in ritardo, pesa l’assenza delle riforme strutturali, che non siamo stati capaci di realizzare, e che adesso ci condanna alla marginalità. Se va bene. O al sonnambulismo di cui ci ha raccontato il Censis nella peggiore delle possibili ipotesi. La ricetta di Magatti per uscire da questa difficoltà, sostanzialmente da questa inazione colpevole, è quella di riscoprire la ricchezza profonda del nostro paese, le forze vive e creative che esistono, sono capaci e possono fare la differenza. Con un grande patto sociale che ricostruisca le precondizioni sociali, demografiche, ambientali, culturali, istituzionali dalle quali ripartire con slancio.
Siamo perfettamente d’accordo con Magatti. Quelle risorse profonde esistono, sono forti, sono in grado di operare un miracolo, ammesso che di miracolo si tratti e non di un risultato già scritto, frutto di precise volontà operative. Nelle relazioni industriali queste ricchezze sono evidenti. Abbiamo una grande capacità contrattuale, abbiamo il coraggio e la grinta per poter percorrere nuove strade cercando soluzioni innovative. La fantasia di chi si siede a un tavolo di trattative, al livello nazionale o in azienda o nel territorio, non ha bisogno di essere dimostrata, è cronaca di tutti i giorni. Si individuano i problemi, gli ostacoli, i nodi, questi vengono aggrediti e le soluzioni sono a disposizione. E il conflitto diventa un sistema per individuare i problemi e così poi risolverli.
I soggetti ci sono. Sindacalisti che si battono con forza e determinazione, ma sempre pronti ad alleanze, anche inedite, per raggiungere un bene comune. Imprenditori che sono pronti a impegnare se stessi e i propri capitali quando vedono una strada percorribile e densa di risultati. Amministratori locali che dimostrano una gran voglia di impegnarsi. Non sono naturalmente tutti così, ci sono sindacalisti che non sanno uscire da schemi ottocenteschi e vedono il conflitto come un fine e non un mezzo, ci sono padroni, il termine è appropriato, che non guardano al di là del loro interesse di brevissimo periodo e quindi non rischiano. E ci sono amministratori pavidi che non si sforzano di andare un solo centimetro oltre i propri minimi per paura dell’ignoto. Ma i virtuosi, anche se sono in pochi, possono fare la differenza, possono portare a scoprire quel tesoretto nascosto.
Il punto è che da soli non possono farcela. Perché per avere un risultato vero, per ribaltare questa situazione di immobilità nella quale siamo avviluppati occorre che tutti questi sforzi vengano opportunamente canalizzati, strutturati, ordinati. E solo un grande patto sociale può riuscire in questa sfida. È nel dialogo tra le parti positive del paese che è possibile cogliere risultati, mettere a punto percorsi di politica industriale che consentano di superare l’immobilità della produttività, far crescere l’occupazione buona, rispondere finalmente alle richieste, troppo spesso mute, delle nuove generazioni.
Tutti si dicono a favore di un grande patto, ognuno sottolinea i benefici che ne verrebbero per il paese, ma nel concreto non accade nulla. Le responsabilità di questa inerzia sono tante e proprio questo è il problema. Perché se fosse una sola parte a essere colpevole, questa non avrebbe alibi per giustificarsi e, prima o poi, sarebbe costretta a muoversi. Ma, dato che a restare fermi sono tanti, siamo dunque costretti all’emarginazione indicata da Magatti? Io personalmente non credo e non perché lo stellone italiano alla fine ci aiuta sempre, ma perché davvero le forze positive sono tante e i sommovimenti interni alla società non sembrano disposti ad accettare passivamente il peggio. Certo, le autorità, nel caso il governo nazionale, dovrebbero muoversi. Ma non è facile sperare se i sindacati dei metalmeccanici hanno dovuto manifestare e promuovere una conferenza stampa per strada davanti Palazzo Chigi per ottenere dall’esecutivo la convocazione di una riunione nella quale discutere il futuro della siderurgia italiana. Le Acciaierie italiane, la grande azienda che ha preso l’eredità dell’Ilva, sta morendo, il nostro paese rischia di perdere per sempre la siderurgia e decine di migliaia di posti di lavoro e il governo non convoca nemmeno una riunione per esaminare il problema? Lo stesso governo che dovrebbe mettere in moto il processo per un grande patto sociale? Qualcosa non torna.
Massimo Mascini