Bisogna essere capaci di sforzarsi ed esprimere una certa comprensione e solidarietà umana – non politica – con Giorgia Meloni. La “nostra” premier è ormai in preda a un’evidente crisi di nervi, e lo ha dimostrato durante il dibattito alla Camera e in Senato nei giorni scorsi. Più che in Parlamento, sembrava di essere in un bar della periferia romana, magari con un tavolo da biliardo in mezzo alla sala, giocatori di carte, sparsi qua e là, bicchieri alcolici alternati a caffè, urla e insulti da una parte all’altra. Con conseguenti minacce di passare allo scontro fisico, della serie “vieni fuori se hai coraggio…”.
Questo era il clima che si respirava nelle aule parlamentari, un clima peraltro determinato proprio da Giorgia Meloni che non è riuscita a mantenere la calma neanche un po’, dimostrando quanto fosse sbagliata la storica battuta di Giulio Andreotti, cioè che “il potere logora chi non ce l’ha”. Invece logora chi ce l’ha, come abbiamo potuto constatare negli ultimi trenta anni, durante i quali chi vinceva le elezioni e andava al governo, poi riusciva rapidamente a perdere il consenso ottenuto nelle urne, non riusciva a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, assisteva attonito allo sgretolamento della sua eterogenea maggioranza parlamentare. E alla fine o cadeva oppure perdeva le elezioni successive.
Ora è troppo presto per pensare che Meloni possa cadere nei prossimi mesi, tuttavia non è affatto presto per notare che – nonostante i consensi nei sondaggi continuino a premiare la premier – il suo governo stia perdendo credibilità e coesione. I suoi alleati, nonché vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, non perdono occasione per dissociarsi da questo o quel provvedimento, magari prendendo iniziative non concordate con la premier, oppure smentendo apertamente la linea di palazzo Chigi, vedi per esempio la posizione sostanzialmente favorevole di Forza Italia sul famigerato Superbonus, oppure l’insistenza maniacale di Salvini contro il Mes, il fondo SalvaStati che alla fine l’Italia dovrà ratificare per forza. Per non parlare del famigerato Ponte di Messina che il leader della Lega sbandiera ai quattro venti da anni come una bandiera identitaria, ache a costo di litigare furiosamente col Presidente siciliano Renato Schifani di Forza Italia. Partito che ormai non nasconde la sua insofferenza nei confronti della Presidente del consiglio: “Fa tutto lei, noi ininfluenti”.
Lei farà anche tutto ma sbaglia anche parecchio. Come per esempio la sua uscita su Mario Draghi e la successiva precisazione che è stata la toppa peggiore del buco. Meloni ha attaccato il suo predecessore, usando quel viaggio in treno per Kiev insieme a Macron e Scholz, per sostenere che l’Europa non è fatta solo da tre paesi (ossia Francia, Germania e Italia), ma da 27 Stati, anzi “nazioni”. E che lei parla con tutti, sottintendendo che invece Draghi non lo faceva. Poche ore dopo arriva il comunicato del governo per dire che la premier non si riferiva all’ex premier ma al Pd, un salto mortale che non ha convinto nessuno ma che ha invece peggiorato la situazione. Oppure, un altro errore da matita blu, l’accordo da lei firmato col premier albanese Edi Rama sulla costruzione di due campi di raccolta per migranti in Albania ma sotto la giurisdizione italiana, accordo sospeso dalla Corte costituzionale di Tirana. Ci vorranno mesi affinché la Consulta albanese emetta la sua sentenza, ammesso che sia favorevole. In ogni caso sarà difficile possibile, per Meloni, utilizzare quella surreale intesa nella campagna elettorale per le elezioni europee di giugno. E pensare che il ricorso è stato presentato dai partiti di opposizione e di destra albanesi, partiti vicini ai Fratelli d’Italia: paradossi della politica.
Nel frattempo si tratta sul Patto di stabilità, con la nostra premier che minaccia il veto e poi vola a Bruxelles e si riunisce con Macron e Scholz in una sala riservata dell’hotel Amigo, esattamente come Draghi anche se stavolta il vertice non si è svolto su un treno. I tre alla fine riescono a sbloccare l’impasse provocata dall’ungherese Vicktor Orban regalandogli dieci miliardi di euro in cambio del suo assenso all’entrata dell’Ucraina in Europa. Una piccola vittoria di Meloni, che con il fascista Orban ha un rapporto fraterno.
Ma insomma, quello a cui stiamo assistendo è un progressivo logoramento dell’immagine e della sostanza del governo italiano, che ormai sbanda di qua e di là senza che la premier riesca a riaggiustare la rotta condividendola con i suoi alleati. Proprio mentre si avvicinano le elezioni europee del prossimo giugno, che saranno il vero banco di prova di tutti i partiti italiani, quelli di maggioranza e quelli di opposizione. I quali, questi ultimi, hanno l’occasione per dimostrare che un’alternativa sarebbe possibile. Sarebbe – il condizionale è d’obbligo – a patto che riescano a presentarsi con un’idea in testa, un progetto unitario in grado di convincere gli elettori a votare per loro. Obiettivo che per ora, visti i sondaggi, non sembra molto vicino. Ma la speranza, come si sa, è l’ultima a morire. Alla fine però, se non viene nutrita da fatti concreti, muore pure lei.
Riccardo Barenghi