Venerdì 1° dicembre, a metà giornata, Acciaierie d’Italia ha diffuso una nota con cui annunciava che “la produzione di ghisa dell’altoforno 2 sarà sospesa per sette giorni a far corso da lunedì 4 dicembre”. La nota, relativa allo stabilimento siderurgico di Taranto, annunciava altresì che tale produzione “riprenderà regolarmente il giorno 11 dicembre”, e motivava la fermata del citato altoforno col fatto che l’Azienda stessa ha “avviato un programma di interventi manutentivi riguardanti diverse aree produttive”.
In una situazione normale, il fatto che un’azienda sospenda la produzione in un suo dato reparto perché ritiene necessario effettuare degli interventi di manutenzione non dovrebbe suscitare, di per sé, nessuna particolare preoccupazione. L’annuncio potrebbe, anzi, essere accolto come segno di un vigile impegno volto a far sì che l’attività produttiva possa poi riprendere nel migliore dei modi.
A prima vista, ciò potrebbe essere vero anche per ciò che riguarda uno stabilimento di Acciaierie d’Italia. Infatti, è da mesi che i sindacati dei metalmeccanici denunciano una situazione di degrado delle strutture produttive, e quindi di peggioramento delle condizioni lavorative, in particolare per ciò che riguarda la sicurezza, all’interno dei maggiori siti del Gruppo: quelli di Taranto e di Genova-Cornigliano.
Perché, allora, la fermata di quello che, nel gergo siderurgico-tarantino, viene chiamato l’Afo 2 ha suscitato un certo allarme sia negli ambienti sindacali che tra gli osservatori delle vicende siderurgiche nazionali?
I motivi, a nostro avviso, sono due.
In primo luogo, sta il fatto riportato da Domenico Palmiotti, già nella serata del 1° dicembre, sul sito del Sole 24 Ore. Secondo Palmiotti, i sindacati si sono mostrati “scettici” rispetto all’ipotesi di una rapida ripartenza di Afo 2 e “citano, a titolo di esempio, quanto accaduto con l’altoforno 1”. Quest’ultimo, scrive ancora l’esperto cronista, “doveva restare fermo un mese ad agosto per consentire di completare l’installazione dei filtri ambientali Meros sull’agglomerazione (…), ed invece è ancora fermo”. Così come “ferma da allora è anche l’acciaieria 1, una delle due dello stabilimento”. Insomma, un brutto precedente.
A ciò però si aggiunge anche l’entità degli “interventi manutentivi” annunciati da AdI. Tornando al comunicato aziendale di venerdì scorso, nel suo testo si può infatti leggere che “gli impianti interessati dalle manutenzioni sono quelli marittimi, i parchi, le linee di agglomerazione, la cokeria, l’acciaieria e il treno di laminazione. Insomma, si tratta degli impianti relativi all’intero ciclo produttivo, dai moli del porto di Taranto, dove vengono sbarcate le materie prime e quant’altro possa essere necessario alla produzione, fino alla fuoruscita dei laminati d’acciaio.
Anche qui, l’aspetto positivo dell’annuncio aziendale sta nell’affermazione secondo cui “le attività manutentive sono state programmate e ottimizzate in modo da poter essere eseguite in parallelo, al fine di minimizzare la riduzione della capacità produttiva”.
L’aspetto negativo, o, quanto meno, preoccupante, sta però nel quadro d’insieme su cui l’annuncio aziendale ha richiamato l’attenzione degli osservatori.
Innanzitutto, con il fermo dell’Afo 2, nel grande stabilimento siderurgico di Taranto rimane in funzione, a partire da oggi, un solo altoforno. E anche nella migliore delle ipotesi, ovvero nell’ipotesi che l’Azienda riesco effettivamente a far ripartire l’Afo 2 già dalla settimana prossima, nonché al di là del carattere simbolico dell’avvenimento, ciò non potrà che abbassare ulteriormente la produzione 2023 del sito siderurgico, già ai suoi minimi storici.
In secondo luogo, ciò che viene in primo piano è una condizione deteriorata del ciclo produttivo. I guai cominciano con una gru fuori uso nella zona del porto di Taranto dedicata all’attracco delle navi i cui carichi sono destinati a rifornire lo stabilimento; e si irrobustiscono, poi, con i problemi di liquidità che rendono difficoltosi, sul piano contrattuale, i rapporti tra l’azienda e i suoi fornitori, con una conseguente crescita dei costi. Per non parlare delle condizioni del nastro trasportatore che dovrebbe alimentare l’altoforno.
A tutto ciò si aggiunga che l’annuncio aziendale è stato dato a pochi giorni dalla data del 6 dicembre, ovvero dalla giornata in cui dovrebbe svolgersi la terza puntata (formalmente la seconda, visto che la prima si è svolta in due tempi) di quell’assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia in cui dovrebbero chiarirsi i difficili rapporti tra il socio pubblico (Invitalia, 38%), e quello privato (ArcelorMittal, 62%). Tanto che, in una sua nota del 1° dicembre, Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil, ha osservato che quest’ultima scelta aziendale “potrebbe apparire come l’ennesima arma ricattatoria nei confronti di un Governo” che, fin qui, si è mostrato “incapace di determinare le scelte strategiche sia sul futuro della siderurgia che della transizione ecologica e sociale”.
Ove mai fosse possibile, si sarebbe tentati di dire che l’intreccio, della sempre più complessa vicenda dell’ex Ilva, si infittisce.
@Fernando_Liuzzi