“Il risultato di questo sviluppo è una oligarchia del capitale privato il cui enorme potere non può essere arrestato nemmeno da una società politica democraticamente organizzata”. Albert Einstein, inutile dirlo, negli anni ’50 aveva visto lungo nel proporre tali considerazioni. Perché dobbiamo convincerci che l’evoluzione economica e tecnologica ripropone la questione del potere in tutta la sua evidenza. Per affrontarlo in modo efficace non servono né visioni classiste, né passatismi imbevuti di pauperismo. Occorre invece scegliere la cultura della partecipazione, potenziarla, sperimentarla con coraggio anche a costo di commettere errori.
L’attuazione della partecipazione nella società industriale ha mostrato innumerevoli tentativi, alcuni dei quali sono divenuti cardine dell’ordine economico e produttivo. Hanno avuto al loro interno dei caratteri comuni: democrazia nei luoghi di lavoro, forza sindacale, mondo della politica attento e pronto ad intervenire, l’idea forza che la partecipazione dovesse non solo equilibrare i poteri nel lavoro ma anche impedire che nella società si formassero vaste aree di esclusione.
La partecipazione anche in passato, possiamo sostenerlo, ha ruotato attorno alla questione del potere. I modelli partecipativi sono nati in modo diverso nel mondo occidentale, da quello svedese a quello tedesco (impossibile da mantenere senza la Bad Godesberg socialdemocratica della fine degli anni ’50), ai nostri consigli di gestione del secondo dopoguerra in virtù di “ricette” diverse ma che scommettevano sulla capacità dei lavoratori di saper competere sui temi della organizzazione del lavoro ma, anche, degli obiettivi delle aziende. Questa maturità della classe lavoratrice la abbiamo constatata anche nella pandemia quando lavoratori e sindacati hanno saputo far convivere la sicurezza con il proseguimento delle attività.
Il riformismo, del resto, ha affidato un ruolo importante alla partecipazione fin dai tempi nei quali Bruno Buozzi poneva con forza il problema della conoscenza e della democrazia nelle fabbriche che, altro non era, se non l’anticipazione di forme di partecipazione in grado di tutelare in primo luogo la dignità del lavoro in una crescita civile della società.
Non a caso un giuslavorista come Gino Giugni rammentò in passato il significato del progetto dei consigli di gestione del socialista Morandi: fare dei consigli un organo capillare della programmazione nazionale.
Naturalmente è impossibile tornare al passato, ma il problema culturale, politico e sociale di collegare la partecipazione al nodo del potere nel mondo del lavoro resta tutto intero ed è su di esso che si dovrebbe riflettere, lavorare, proporre.
Oggi viviamo una contraddizione evidente: la finanziarizzazione del capitale nel mondo e l’accentramento dell’evoluzione tecnologica in poche mani contrasta visibilmente con l’accezione sempre più indiscutibile del valore sociale della proprietà (su questo concetto la Chiesa di Papa Francesco ha compiuto passi importanti) ma anche con la necessità di evitare una nuova spaccatura fra una minoranza di persone in possesso degli strumenti culturali e tecnici all’altezza dei tempi e una sempre più vasto territorio sociale di esclusione e di marginalità.
La cultura della partecipazione è, dunque, uno strumento indispensabile, non più per correggere i difetti capitalistici, ma per contribuire a recuperare da parte dei lavoratori un proprio ruolo senza impoverire ulteriormente i fondamenti della vita democratica.
Infatti, a cosa serve, oggi, un antagonismo di maniera, conseguenza ormai asfittica di un passato della lotta di classe oggi improponibile? Ed a cosa serve inoltre la riluttanza politica del riformismo ad affrontare questo tema preferendo invece rifugiarsi nell’assistenzialismo che diventa in tal modo un regalo alla concentrazione del potere economico e finanziario non scalfito, anzi assolto…, da misure che condannano alla precarietà ed alla sudditanza buona parte delle generazioni più giovani?
Partecipazione vuol dire molte scelte da compiere, ma allo stato attuale non può limitarsi ad un diritto alla informazione come negli anni ’70, od anche ad una presenza minoritaria nella struttura degli organi decisionali delle imprese. Ma soprattutto non può essere scissa da quella “strategia della formazione permanente di cui l’impresa deve essere responsabilizzata” come ha sostenuto Bruno Trentin.
Il terreno di ricerca e di impegno culturale è assai vasto e pone problemi di difficile soluzione, ma certamente completa un ruolo sindacale che in molti, al di fuori delle organizzazioni sindacali, vorrebbero sempre più relegare nella insignificanza. Per giunta in Italia il tema partecipativo si scontra con la dimensione della maggior parte delle imprese che sono, anche quando hanno elevata qualità tecnologica, per lo più piccole o medie.
Ma è fin troppo facile argomentare che rincorrere l’illusione antagonista sia la ricetta tuttora migliore, condurrebbe soltanto sindacato e lavoratori ancor più all’esterno dei processi produttivi.
Ma non si parte da zero, è necessario osservarlo. Nel confronto con l’imprenditoria vi sono già acquisizioni importanti che attendono però di essere rivitalizzate da una strategia più generale. Indicano però che la strada da seguire c’è e va aggiornata e rafforzata.
Si dirà che alla partecipazione manca però quella che è stata chiamata… l’artiglieria politica. Osservazione purtroppo giusta ma che, ad esempio, da alcuni accenni recenti sulla partecipazione del Presidente del Consiglio sembra diventare terreno di “investigazione” della destra politica in Italia. Non pare un percorso destinato a grandi risultati. Semmai ci si dovrebbe chiedere come si giustifica l’assenza delle opposizioni su questo terreno. Potrebbe trattarsi di una “diserzione” non tanto nei riguardi del contrasto alla destra politica quanto nella risposta da dare alle aspettative di giovani e lavoratori. Un errore che andrebbe evitato.
Paolo Pirani – Consigliere CNEL