In Italia oggi sono sei milioni le donne che hanno subito una forma di violenza, almeno una volta nella vita. Il fiorire delle loro libertà fa paura anche a una generazione di uomini nuova, in troppi casi ancora pervasa dall’ossessione millenaria di un controllo manipolatorio, abituata all’azione, ma non alla relazione, incapace di gestire la frustrazione di un “no”, sorda sui temi del consenso e del rispetto.
Un pezzo della libertà delle donne passa attraverso la realizzazione di un percorso di formazione e l’indipendenza economica. In una parola, il lavoro. E allora cosa facciamo e cosa possiamo fare, come sindacato che negozia 20 contratti nazionali e migliaia di accordi di II livello, per contrastare sul posto di lavoro il fenomeno delle violenze e delle molestie di genere, che siano fisiche, sessuali, verbali, psicologiche o economiche?
Ci sono due ambiti in cui come Femca Cisl ci muoviamo: il sostegno alle vittime e la prevenzione degli abusi.
In molti contratti, a larga prevalenza di occupazione femminile, come la moda e l’occhialeria, abbiamo ottenuto, ai sensi del Decreto Legislativo 15 giugno 2015 n. 80, che coloro che vengono inserite nei percorsi di protezione certificati dai servizi sociali del Comune di residenza, dai centri antiviolenza o dalle case rifugio, ottengano un’astensione dal lavoro con indennità a carico dell’azienda, che vada oltre i 3 mesi previsti dall’Inps. Ne abbiamo conquistati altri due, in alcuni casi tre in più, anche nel comparto energetico, con il gas-acqua e nel chimico, con il gomma-plastica. In altri contesti, tuttavia, il solo recepimento del DL è diventato una battaglia consumata sul terreno della negoziazione. In altri ancora, dove i margini per l’impresa sono scarsi, lavoriamo faticosamente per far recepire la legge. Nelle realtà più virtuose abbiamo realizzato percorsi di sostegno al reinserimento, con opzioni come flessibilità oraria, telelavoro o accesso al part-time temporaneo. Abbiamo inoltre concordato con le aziende l’adozione di azioni disciplinari contro chi commette abusi di genere, garantendo una risposta decisa e proporzionata.
Quanto al tema prevenzione, attraverso protocolli e codice etico, impegniamo le aziende a dichiarare la non tolleranza verso comportamenti violenti e molestie, attuando concretamente normative di parità e non discriminazione di genere. Forte è l’impegno sulla formazione, con lavoratori, lavoratrici e parti datoriali che devono partecipare a programmi che aumentino la consapevolezza della problematica, creando un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso, anche con l’aiuto dei centri antiviolenza. Sviluppiamo inoltre procedure dedicate, volte a segnalare comportamenti o episodi di violenza, garantendo la dignità e la riservatezza delle persone coinvolte. Infine partecipiamo a Osservatori nazionali o specifiche Commissioni che devono raccogliere e diffondere dati statistici sulle molestie di genere e sul benessere dei dipendenti.
Siamo tutti consapevoli che i femminicidi non finiranno con l’inasprimento di una legge dall’approccio securitario – discussa in questi giorni in un’aula significativamente vuota – o con 12 ore di formazione a scuola. Dovremo impegnarci, anche nei luoghi di lavoro, per sconfiggere l’analfabetismo emotivo e realizzare un nuovo apprendistato fondato su un cambio di paradigma, che porti gli uomini in difficoltà ad avere un sé meno fragile, a rispettare l’indipendenza delle donne, a costruire un’autonomia che permetta loro di pensarsi anche separati da un’altra persona, nei confronti della quale talvolta sviluppano un rapporto di dipendenza ossessiva.
Riconosciamo il maschio violento, ma costruiamo al contempo un uomo nuovo e donne libere dai sensi di colpa. Per farlo abbiamo bisogno di risorse, non possiamo accettare progetti a invarianza finanziaria. Dobbiamo pretendere continuità dei fondi dedicati ai centri antiviolenza, alle strutture sanitarie e sociali pubbliche, alla formazione delle Forze dell’ordine, ma anche al sostegno all’occupazione e a tutto ciò che può rimuovere i vincoli all’accesso stabile delle donne nel mondo del lavoro. Dobbiamo convincere chi le risorse le governa, che la violenza maschile è in connessione diretta con la mancanza di potere delle donne, con la discriminazione e con il gender pay gap che vede in Italia un divario retributivo complessivo del 43% contro una media europea del 36%. Al netto delle decisioni dell’ultimora, il nostro Paese, insieme a Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania è inoltre l’unico, nell’Unione Europea, a non proporre una vera e propria educazione sessuale e affettiva a scuola. Scuola che non può restare unico luogo di preparazione alla vita, ma che deve coadiuvare la famiglia, insieme ai contesti amicali, le associazioni sportive, quelle musicali, le parrocchie. E il sindacato.
Anche come Femca Cisl dobbiamo farci portavoce di un nuovo modello che riconosca la libertà femminile e di un sistema all’interno del quale non vi siano più quelle asimmetrie che generano abusi. Chiediamo che la strategia delle tre “p” — punire, proteggere, prevenire — della Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, non resti lettera morta e che si insegni con l’esempio e le parole, che nessuna persona potrà mai essere una nostra proprietà o consolazione. Che si insegni anche agli uomini a reagire davanti all’ingiustizia, di fronte alla quale non esiste neutralità. O la combatti o sei complice. Anche nel sindacato, alziamo e teniamo dritto lo sguardo.
Nora Garofalo
segretaria Generale Femca Cisl