Archiviato il salario minimo legale, sembra uscito di scena anche il lavoro povero. Almeno così sembra, nessuno ne parla più, forse si pensa che il problema sia risolto. A riaprire il caso ci ha pensato però il commissario Ue al Lavoro, il lussemburghese Nicolas Schmit, che ha dato un’interpretazione autentica della direttiva europea. Il commissario ha riconosciuto che in Italia la contrattazione collettiva copre la gran parte dei lavoratori, ma ha anche detto che l’obiettivo della Commissione non era quello di allargare il bacino della contrattazione, bensì quello di alzare i salari poveri. E in Italia, ha chiarito, tanti contratti, anche tra quelli firmati dalle confederazioni, prevedono salari bassi, insufficienti. E del resto anche i leader confederali confermano questa realtà. Per questo, dice Schmit, il salario minimo servirebbe anche in Italia, per sanare tutte quelle situazioni difficili che interessano milioni di lavoratori, non qualche frangia isolata.
Il nodo è lì e pesa non poco sulla società, ma nessuno sembra più occuparsene. E del resto, non sarebbe facile trovare un rimedio. Interventi per irrobustire la contrattazione ci sono, più o meno efficaci, compreso quello di un ruolo più attivo del ministero del Lavoro nel chiudere le trattative difficili, come accadeva una volta. Ma poi anche una contrattazione più forte non sarebbe in grado di raggiungere le categorie svantaggiate, che soffrono non perché non ci sia contrattazione nella loro categoria, ma perché i risultati sono insufficienti. E così tutti dimenticano il problema. Il Cnel ha dato la propria ricetta e si è fatto da parte, il governo è impegnato in casi più gravi, il sindacato è diviso e incerto, la Confindustria è sparita. Il peso è tutto su quei tre o tre milioni e mezzo di lavoratori che non arrivano alla fine del mese e non intravvedono una luce, per quanto lontana, nel tunnel in cui si trovano.
Una situazione difficile e di complessa soluzione. Un rimedio ci sarebbe e a offrirlo è stata all’inizio di ottobre la Corte di Cassazione con una sentenza destinata a fare rumore. L’alta corte ha infatti decretato che il rispetto di un contratto collettivo di lavoro non è di per sé sufficiente per assicurare la congruità di un trattamento economico. L’articolo 36 della Costituzione, che ha valore superiore alla legge e al contratto collettivo, stabilisce che la retribuzione deve essere proporzionata al lavoro prestato, ma anche che deve essere sufficiente per assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Tradotto, ciò significa che il giudice ordinario per assicurare ottemperanza all’articolo 36, può disporre una retribuzione diversa da quella stabilita dal contratto collettivo di riferimento, attingendo indicazioni da contratti similari. Il vigilante che ha dato il via a questo iter giudiziario aveva chiesto gli fosse applicato un trattamento retributivo analogo a quello previsto dal contratto dei portieri. E l’ha ottenuto.
È evidente che questa sentenza può cambiare le carte in tavola. Ma il rimedio rischia di fare gravi danni. Innanzitutto, perché l’applicazione di questo meccanismo giudiziario aumenterebbe la confusione generale, dal momento che crescerebbe la giungla retributiva, già molto intricata. Poi perché segnerebbe la sconfitta del ruolo della contrattazione e delle parti sociali, che non potrebbero che arrendersi di fronte all’intrusione anomala della magistratura in un terreno che è sempre stato di stretta competenza del mondo del lavoro. Il sindacato è nato per stabilire salari equi, se non svolgesse più questo compito la sua identità vacillerebbe.
Il tema è spinoso, soprattutto perché tante vie di uscita non si vedono. Servirebbe allora una grande trattativa generale sul sistema della contrattazione, che riveda tutti i principi che la regolano. L’ultima normazione è il Patto della fabbrica, del 2018: nemmeno tanti anni fa, ma da allora è successo di tutto, la pandemia, l’inflazione, le transizioni, la guerra. Una revisione sarebbe azione normale, e infatti se ne parla. Ma, appunto, se ne parla, poi però nessuno sembra intenzionato ad avviare un vero tavolo di negoziato, e sono pochi, e fin qui inascoltati, quelli che continuano a predicarne l’urgenza. E intanto i salari poveri restano poveri.
Massimo Mascini