Il salario minimo non è lo strumento giusto per combattere il fenomeno del lavoro povero. Il Cnel è stato molto preciso in tal senso, affermando che la via maestra di un possibile intervento è quella della contrattazione. Giustamente, ma un po’ sbrigativamente. Sarebbe stato più giusto forse affermare che i due strumenti, salario minimo legale e contrattazione, non sono tra loro necessariamente alternativi, possono invece convivere: il salario minimo non sarebbe in grado di risolvere il nodo del lavoro povero, ma sarebbe certamente un mezzo per alleviare le difficoltà di chi, pur con un lavoro retribuito, non è in grado di arrivare alla fine del mese. La tesi secondo la quale l’introduzione per legge di un livello minimo di salario potrebbe allontanare intere categorie dal solco della contrattazione non convince. Qualcuno potrebbe anche essere indotto a credere che la sostituzione tra salario minimo e contrattazione sia possibile, ma si tratterebbe nel caso dei soliti furbetti, che non mancano mai, ma non fanno scuola.
Contrattazione, dunque, sistema che però non gode di buona salute. I contratti dell’industria si fanno, bene e velocemente, e tutte le grandi imprese e molte delle medio-grandi rinnovano normalmente e velocemente i loro contratti di secondo livello, ma questo è un fortino isolato, peggio, assediato dai tanti che non rinnovano i contratti, non vogliono rinnovarli o non sono in grado di farlo. Non ci sono solo i contratti pirata, che prevedono retribuzioni mensili molto modeste, esiste una vera giungla contrattuale, forte di quasi mille contratti nazionali, nella quale non è facile districarsi. E nella quale occorrerebbe fare luce e mettere ordine. Ci provarono le parti sociali, l’ultima volta nel 2018 con il Patto della fabbrica, ottimo accordo, pieno di indicazioni e spunti molto interessanti, che però in gran parte è rimasto sulla carta. Forse sarebbe bene rimetterci le mani, nel tentativo di migliorare il sistema della contrattazione.
La prima azione dovrebbe essere quella di definire regole precise su chi è in grado di negoziare i rinnovi contrattuali e con quali modalità, partendo da dati più sicuri sulla rappresentatività delle diverse organizzazioni. In realtà, esistono già delle regole in materia, riunite nel Testo unico che Confindustria e Cgil, Cisl e Uil firmarono nel 2014 e che successivamente è poi stato accettato da tutte le grandi organizzazioni. Il punto è che quell’accordo è rimasto lettera morta, non sono stati sufficienti nove anni per applicarlo concretamente. Evidentemente, è necessaria una legge che imponga quelle regole. La Cisl si oppone a un intervento legislativo, considerando la materia di esclusiva competenza delle parti sociali. Ma se nove anni non sono stati sufficienti qualcosa se ne deve dedurre. A meno che non sia vera quella che appare più come una favola metropolitana, secondo la quale i conti sulla rappresentatività sono stati fatti ma avrebbero penalizzato eccessivamente qualcuno e quindi si è preferito non farne nulla. Non credo che ciò sia vero, ma se così fosse allora basterebbe rimettere le mani su quelle regole per ammorbidirne la rigidità.
Un altro dei punti di quel Patto che non sono stati attuati è quello dei perimetri contrattuali. Perché accade che contratti nati per un particolare settore, con determinate caratteristiche, siano poi applicati in aziende di altri settori perché queste aziende si associano ad organizzazioni che con loro hanno poco a che fare. Imprese commerciali che si associano alle organizzazioni artigiane, aziende industriali che si avvicinano a organizzazioni del terziario, e così via. Il Patto della fabbrica affidò al Cnel il compito di chiarire quei perimetri, ma questa si è rivelata una mission impossible. Riprendere quel discorso sarebbe inutile, perché la realtà è così ormai intricata che è impossibile tornare indietro. Gli stessi protagonisti affermano che ormai regole precise non sono applicabili, perché ogni azienda si comporta come crede nel proprio territorio.
Sicuramente è invece possibile intervenire per evitare i grandi ritardi che si accumulano nel rinnovo dei contratti. Se i chimici rinnovano abitualmente i loro contratti tre mesi prima della scadenza e tanti altri settori industriali sono parimenti virtuosi, altrove ritardi, di anni e anni, sono fortissimi, tanto che una revisione delle regole della contrattazione non potrebbe esimersi dall’indicare qualche rimedio. Per esempio, potrebbe essere aumentato il peso dell’indennità di vacanza contrattuale che si applica appunto quando i rinnovi ritardano. Le regole attuali evidentemente non incidono, sarebbe meglio se prevedessero aumenti salariali ben più consistenti: forse non in una percentuale uguale all’inflazione, ma sicuramente in modo più incisivo. Potrebbe aiutare anche una modifica dei tempi della durata dei contratti, perché spesso i rinnovi ritardano per le difficoltà che le organizzazioni datoriali incontrano nel prevedere cosa accadrà all’economia, quindi quali aumenti salariali potranno permettersi. Una volta le indicazioni salariali dei contratti valevano due anni, quelle normative quattro. Poi si è tornati a una durata di tre anni, ma molti chiedono di tornare alla biennalità, almeno per la parte salariale, e qualcuno si spinge a ipotizzare aumenti salariali che valgano per un solo anno, per avere maggiori certezze e maggiore facilità di previsione.
Ancora, potrebbe aiutare uno snellimento dei contratti, specie dei più corposi, come quello dei metalmeccanici, che si applica indistintamente ai grandi centri siderurgici come alla piccola azienda della minuteria meccanica. Contratti più ristretti potrebbero essere rinnovati più facilmente. Fa fede quanto occorso nel settore alimentare dove non è stato possibile rinnovare il contratto di Federalimentare che si applicava a un numero troppo elevato di settori, con caratteristiche molto diverse tra loro.
E poi aiuterebbe certamente un ruolo più attivo del ministero del Lavoro. Una volta la prassi era che per una trattativa importante, ma anche per quelle meno rilevanti, quando il confronto si faceva impossibile o andava troppo lento, il ministro di turno avocasse a sé questo confronto e si impegnasse per trovare o imporre una soluzione di mediazione. Da anni non abbiamo notizia di analoghi comportamenti virtuosi, ma quella è la strada da battere.
Insomma, tanti interventi sarebbero possibili e auspicabili, ma la prima condizione è che le parti sociali abbiano la voglia di incontrarsi e discuterne, con o senza il governo. I tentativi di portare le parti attorno a un tavolo di confronto non sono mancati in questi anni, purtroppo però sempre senza successo.
Massimo Mascini