Il mercato del lavoro italiano è tutt’altro che fermo, anzi. Gode di una invidiabile mobilità, se è vero che oltre 700 mila lavoratori (su poco più di un milione) che si sono dimessi dalla loro occupazione hanno poi trovato un nuovo lavoro, più soddisfacente, nell’arco di appena tre mesi. È uno dei dati che emergono dal focus prodotto dal Censis per Confcooperative, dove si sfatano alcuni miti ma si confermano anche diversi allarmi. Primo tra tutti: la mancanza di lavoratori sta rallentando di molto la crescita del Pil nazionale, che 2023 avrebbe potuto raggiungere i 1.810 miliardi di euro se tutte le imprese fossero riuscite a trovare le figure professionali di cui hanno bisogno: in totale, calcola il Censis, sono mancati 316.000 lavoratori, un “buco” che equivale a 28 miliardi di euro, pari all’1,5% del Pil.
Il lavoro, insomma, continua ad esserci, ma sono i lavoratori che continuano a mancare.
Invecchiamento degli occupati, squilibrio nella redistribuzione del lavoro fra le aree più dinamiche e quelle meno favorevoli, cambiamenti nelle aspettative che riguardano il lavoro e che rivendicano un maggiore riconoscimento delle competenze: sono tutti fattori che contribuiscono a mantenere “asincrono” l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, spiega il presidente di Confcooperative Maurizio Gardini. Tutto questo determina un costo economico che, negli anni, tende a crescere: nel 2021 il costo era dell’1,2% del PIL (quando risultavano mancanti 235.000 lavoratori), oggi è l’1,5% sul PIL (316.000 lavoratori). Nel secondo trimestre di quest’anno, rispetto a un valore medio del 2,3% per il totale di industria e servizi, nelle costruzioni la quota dei posti vacanti ha raggiunto il 3,1%, che sale nelle attività dei servizi di alloggio e ristorazione al 3,7%. Sopra il dato medio si collocano anche le attività di informazione e comunicazione (2,9%), mentre meno critica appare la situazione nel manifatturiero (2,0%), nel settore energetico (1,2%), nei trasporti (1,4%).
Le ragioni sono innanzi tutto demografiche: in 10 anni gli occupati over 50 sono aumentati di quasi 3 milioni, ma nello stesso periodo si è ridotta la componente più giovane dell’occupazione (15-34 anni). Prendendo in esame la classe degli “Over 50”, il fenomeno appare molto più marcato: fra il 2012 e il 2022 gli occupati “anziani” sono passati dai 6,3 milioni del 2012 ai 9 milioni del 2022. L’incremento è stato del 42,4%, tanto che oggi la classe d’età 50 e più rappresenta una quota pari al 39% sul totale dell’occupazione (era il 28,4% nel 2012). Sempre nel 2022, risultavano ancora occupati 687 mila individui con un’età uguale o superiore ai 65 anni (over 65). Fra il 2012 e il 2022 la componente più anziana è, di fatto, cresciuta del 72,2%. Di riflesso, l’aspetto controverso di questo fenomeno riguarda, ovviamente, gli occupati più giovani. Fra il 2012 e il 2022 i 15-34enni occupati si riducono, in termini assoluti, di 361 mila unità; in termini relativi la variazione negativa è di 6,5%. La quota dei giovani fra gli occupati passa dal 25,1% del 2012 al 22,6%. Con tutte le conseguenze negative sull’economia che questo comporta e che saranno inoltre aggravate – come avverte una recente ricerca di Prometeia- dall’incombente pensionamento in massa dei baby boomers, che causerà un ulteriore “buco” di mano d’opera pari a centomila unità all’anno da qui alla fine del decennio.
“La congiuntura internazionale ha già indotto il FMI a tagliare le stime di crescita. Se si tornerà alla stagione della “crescita zero virgola”, tutte le contraddizioni coperte dalla ripresa degli ultimi anni verranno alla luce – avverte Gardini – La mancanza di lavoratori, la scarsa dinamica del ricambio generazionale, il rischio di avvitamento verso il basso della crescita, della produttività e della capacità di innovazione, appaiono quanto mai inevitabili. Elementi – conclude – di un’oggettiva sfasatura che, oggi più che in passato, caratterizza il mercato del lavoro italiano, dal quale emerge un quadro di forte complessità”.
Complessità, ma anche, in un certo senso, dinamicità, come emerge esaminando nel dettaglio le cosiddette ‘grandi dimissioni’. Dallo studio del Censis, viene fuori una diversa lettura: più che di addio al lavoro tout court si tratta una sempre più rapida trasmigrazione da un lavoro all’altro. Nel 2022 il numero di lavoratori dipendenti che si sono dimessi è stato di 1.047.000, ma di questi quasi due terzi, e cioè circa 700.000, si sono ricollocati nel giro di tre mesi. Un trend decisamente accelerato rispetto a quello riscontrato nel 2019, cioè pre – Covid, quando le dimissioni volontarie riguardavano poco più di 800.000 lavoratori, poco più del 60 per cento dei quali era in grado di ‘’riciclarsi’’ entro tre mesi. Oggi il tasso di ricollocazione tende a crescere, al passo, del resto, con l’aumento dell’occupazione che si è registrata negli ultimi due anni. In altre parole: anche grazie al fatto che si stenta a trovare mano d’opera, diventa più facile, per chi lo desidera, trovare una nuova occupazione “su misura”.
Chi cerca un nuovo lavoro, oggi come ieri, lo fa perché vuole migliori condizioni, certo; ma cosa si intende per “migliori condizioni”? In dieci anni le motivazioni sono parecchio cambiate. Se nel 2012 il 51,2% degli occupati a tempo indeterminato dichiarava di voler cambiare lavoro per guadagnare di più, nel 2022 questa percentuale si attesta a un livello molto più basso: solo il 36,2%, praticamente stessa percentuale di chi ai soldi preferisce un lavoro più adatto alle proprie competenze e con maggiori chances di carriera, categoria più che raddoppiata rispetto al 13% dieci anni fa. E ancora: dieci anni fa, in piena crisi economica finanziaria mondiale, quasi il 20% di chi aveva un contratto a tempo indeterminato cambiava occupazione perché temeva di perdere il proprio lavoro: ma nel 2022, anno di forte crescita, meno del 7% basa la sua scelta sul timore di restare disoccupato. E mentre nel 2012 appena il 2,5 cambiava lavoro per stare più vicino a casa, dieci anni dopo questa percentuale è più che doppia, cosi come quella di chi vuole cambiare per ottenere un orario di lavoro ridotto, che conceda maggiore tempo libero per occuparsi dei figli o della propria vita famigliare.
Infine, va detto che generalmente chi cambia lavoro lo fa all’interno dello stesso settore di provenienza, ma il grado di “continuità” varia da settore a settore. Solo il 52,0%, infatti, risulta ricollocato dopo tre mesi nell’ambito delle attività Alloggio e ristorazione; relativamente bassa è anche la quota di ricollocati nel Tessile, abbigliamento e calzature (61,1%), così come nel Commercio (61,7%). Le quote più elevate di dimissionari che si ricollocano nel medesimo settore riguardano le attività dei settori metalmeccanico (73,1%), costruzioni (73,1%), trasporti e comunicazioni (78,5%), fino all’alto terziario (79,0%) ambito pubblico e finanziario. Forse, alla fine, i più appetibili, pagati e garantiti.
Nunzia Penelope