Un celebre sermone del pastore Martin Niemöller, erroneamente attribuito a Bertold Brecht, recita: «Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo./ Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa». L’accusa di Niemöller era rivolta agli intellettuali tedeschi durante l’ascesa del nazismo, che poco o nulla fecero per opporsi alle purghe degli oppositori politici e degli obiettivi etnici del Reich. Le sue parole sono diventate il monito contro l’indifferenza e il testo ha conosciuto molteplici declinazioni adattate a diversi contesti. Non ultima quella diffusa dall’account social @livingjewishly che recita: «Prima vennero per la comunità LGBTQ e ci siamo ribellati, perché “Love Is Love”. Poi vennero per gli immigrati e ci siamo ribellati, perché “Families Belong Together”. Poi vennero per la comunità afroamericana e ci siamo ribellati, perché “Black Lives Matter”. Poi vennero per me, ma mi ribellai da solo, perché sono un ebreo». “Love is Love”, “Families Belong Together” e “Black Lives Matter” sono le campagne di advocacy dedicate ai gruppi vittime di discriminazioni e violenze, attive principalmente negli Stati Uniti, dove tra l’altro risiede anche la comunità ebraica più grande del mondo (dopo Israele, ovviamente).
Ma questa è solo una sineddoche dello tsunami mediatico sul conflitto in corso tra Israele e Palestina che, come per la guerra tra Russia e Ucraina, è delocalizzata anche sui canali social dove bombe, droni e proiettili diventano tweet, reel e post. Un fatto nuovo, questo, ma la guerra, forse, si combatte anche così, tanto che Meta ha apposto delle forti restrizioni alla diffusione di molti contenuti sulla questione israelo-palestinese data la quantità di materiale che sta circolando in questi giorni (senonché, per aggirare l’algoritmo, molti account, più o meno ufficiali, alternano notizie del conflitto a immagini di gattini e torte). Quello che colpisce, come per il conflitto Russia-Ucraina, è la spasmodica urgenza di vederci collocati da una parte o dall’altra, filo-israeliani o filo-palestinesi, di decidere se stare con l’uno o con l’altra: con gli israeliani, già vittime di atroci persecuzioni durante il nazismo, o con i palestinesi, già vittime di segregazioni e violenze nella illegittima spartizione dei territori lungo la Striscia di Gaza? Che si traduce: con il cinico Netanyahu o il vendicativo movimento di Hamas (ormai una sorta di figura immaginifica che si impersona in un uomo barba e turbante con il kalashnikov a tracolla)? Tutto questo quando non si fa il gioco delle crociate religiose e si fa la divisione in ebrei e musulmani. Come in una partita di calcio, in questo caso un derby.
Inoltre, al di là del merito – che pure non si vuole trascurare, ma di certo è agli esperti che si lascia il campo -, a spingere sulla metafora della competizione sono anche le infografiche di agenzie e principali quotidiani che dividono le vittime e i feriti a seconda degli schieramenti. Dei veri e propri tabelloni che ricordano (ancora) i segna punti degli stadi, in cui da un lato ci sono vittime e feriti israeliani e dall’altro vittime e feriti palestinesi: la tragedia (s)bilanciata sul calcolo aritmetico. Come dire, rifacendosi al post parafrasante le parole di Niemöller di cui sopra: un po’ a me, un po’ a te, e chi ha più punti vince la solidarietà del resto del mondo. E allora ci si arrabbia contro i collettivi studenteschi che manifestano in sostegno al popolo palestinese, contro le fiaccolate per i civili israeliani, contro il rettorato di Harvard che non ha preso le distanze dai 33 gruppi di studenti che considerano «il regime di Israele totalmente responsabile di tutte le violenze» causate da «vent’anni di apartheid a Gaza», contro la comunità ebraica che affigge manifesti con i volti degli ostaggi rapiti durante il rave nel deserto.
In questa babele di posizioni, di letture che in qualche ci costringono a prendere una posizione come se fosse l’unico modo per attestare la nostra presenza al mondo, ci si dimentica la banalità del male, la paura, l’equalità di vite spezzate in uno scenario in cui una razza, una faccia. A chi traduce il sostegno al popolo palestinese come un sostegno ad Hamas, a chi interpreta la solidarietà alla comunità ebraica come avallo alle politiche di Netanyahu, basterebbe ricordare almeno uno, il primo, degli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». E in aggiunta, come è già stato detto: «Tutto il resto viene dopo».
Elettra Raffaela Melucci