Dolore, sgomento, impotenza. E invidia per coloro che sembrano sempre sapere tutto, che capiscono tutto, che millantano di aver previsto tutto. La pandemia, l’invasione dell’Ucraina, gli sconvolgimenti climatici, la crisi economica. E ora l’attacco ad Israele, il terrorismo islamico, l’inferno di Gaza. I sapienti del tubo catodico asseriscono, concionano, litigano. Il bianco e il nero. Che è poi il titolo di un onirico racconto di Voltaire, le avventure del giovane Rustan e dei suoi due scudieri, Topazio ed Ebano, il bene e il male. Nella novella si citano Zoroastro e il manicheismo, la semplicistica lettura duale della realtà. Che però, ammonisce il filosofo, è molto più complessa. “Una grande difficoltà”, alla quale risulta difficile fornire risposte.
E l’uso della ragione, invece di rasserenare, aumenta i dubbi e genera infelicità. Il pensatore di Fernay affronta questo dilemma in un altro suo racconto, “Storia di un buon brahamano”. Il sacerdote in questione, sapiente, saggio, pieno di spirito, ricco, coccolato da tre donne, era però triste. Perché? Ecco la risposta: “Insegno agli altri e ignoro tutto. Questa condizione produce nel mio animo tanta umiliazione e disgusto che la vita mi è insopportabile. Sono nato, vivo nel tempo, e non so che cos’è il tempo. Mi trovo in un punto tra due eternità, come dicono i nostri saggi e non ho alcuna idea dell’eternità. Sono composto di materia; penso, e non ho mai potuto capire in che modo sia prodotto il pensiero; ignoro se il mio intelletto sia in me una semplice facoltà, come quella di camminare, di digerire e se io pensi con la mia testa come prendo qualcosa con le mie mani. Non solo mi è ignoto il principio del mio pensiero, ma mi è ugualmente nascosto il principio dei miei movimenti. Non so perché esisto. Eppure, ogni giorno mi si pongono domande su tutti questi punti: bisogna rispondere; non ho nulla di buono da dire; parlo molto, e rimango confuso e vergognoso di me stesso dopo aver parlato”.
Lo sfogo continua: “Ah! reverendo padre, mi si chiede, spiegateci come mai il male inonda tutta la terra. Io sono tanto in pena quanto quelli che mi fanno questa domanda. Dico loro talvolta che tutto è il meglio del mondo; ma quelli che sono stati rovinati e mutilati in guerra non ci credono affatto, e io lo stesso; mi ritiro a casa sopraffatto dalla mia curiosità e ignoranza. Leggo i nostri libri antichi, ed essi raddoppiano le mie tenebre”.
Lo stesso Voltaire, che è la voce narrante dell’apologo, aggiunge che nei pressi della lussuosa dimora del lamentoso, “abitava una vecchia indiana, bigotta, imbecille, e abbastanza povera”. La va trovare e le chiede se “fosse mai stata afflitta per non sapere com’era fatta la sua anima”. La donna non comprese nemmeno la domanda, non aveva mai riflettuto su uno dei punti che tormentavano il suo dotto vicino: “Credeva alle metamorfosi di Vishnu con tutto il cuore e, a condizione di poter avere talvolta dell’acqua del Gange per lavarsi, si credeva la più felice delle donne”.
E allora, meglio infelici o sciocchi? Il filosofo non scioglie l’interrogativo. “La furiosa contraddizione” permane, anche se è difficile trovare qualcuno disponibile a “diventare imbecille per diventare contento”. Conclusione: “Vi è di che discuterne a lungo”.
Voltaire coltivava il dubbio e l’ironia. Ma aveva una certezza assoluta, intangibile: la condanna dell’intolleranza. Alla fine delle sue lettere, metteva sempre un’inappellabile esortazione: “écrasez l’infàme”.
Schiacciate l’infame. E predicate la tolleranza, “appannaggio dell’umanità”. “Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura”.
Marco Cianca