“Contrattare, contrattare, contrattare!” È il grido di battaglia con cui Renato Brunetta ha difeso a spada tratta il documento con cui il Cnel, che da marzo presiede, ha affossato il salario minimo. Il salario minimo già esiste, dicono in sostanza le 40 pagine del documento varato giovedì dall’assemblea di Villa Lubin, ma sono i contratti a definirlo, non le “grida manzoniane” di quei “9 euro per tutti” sbandierati dall’opposizione. Dunque, afferma il Cnel, per risolvere il problema della povertà lavorativa occorre ripartire dai contratti; e se legiferare proprio si deve, caso mai sono i provvedimenti a sostegno della contrattazione quelli che occorrono, non altro.
Tecnicamente, il lavoro svolto dal Cnel negli avari sessanta giorni concessi dal governo Meloni per venire a capo di un problema irrisolto da decenni -quello dei salari poveri – non è per niente negativo e tanto meno inutile. Per la prima volta si mettono in fila dati di fonti diverse cercando di farli coincidere per quanto è possibile, tracciando una mappa delle debolezze e delle virtù del sistema contrattuale e salariale italiano e individuando le soluzioni per ridurre le prime ed esaltare le seconde. Tra queste ultime, indubbiamente, c’è l’altissimo livello di copertura contrattuale dei nostri lavoratori, superiore al 97%. Questa percentuale ci colloca nell’area che, secondo la famosa direttiva Ue, è esentata dall’obbligo di prevedere un salario minimo orario. Tra le debolezze, invece, c’è che alcuni settori, pur coperti da contratti regolari e non “pirata”, hanno retribuzioni affamanti; che moltissimi lavoratori, pur avendo contratti regolari con buone paghe, sono però a loro volta ‘’affamati’’ a causa dei part time imposti dalle aziende che impediscono di avere a fine mese una busta paga congrua; che metà dei contratti si rinnovano con scadenze lunghe ormai come ere geologiche; e che esiste, infine, tutto un mondo inafferrabile che ruota attorno al lavoro precario e precarissimo, quando non nero.
Sono proprio queste debolezze i cardini attorno ai quali si era costruita la proposta di legge per definire una soglia minima di paga oraria valida per tutti, presentata dalle opposizioni (“la sinistra”, come preferisce definirle il presidente del Cnel), con l’appoggio della Cgil e della Uil. E peraltro era stata anche una delle ipotesi prese in considerazione nel primo “parere” per il governo espresso da Villa Lubin l’11 luglio scorso: che non assumeva come prima ipotesi il salario minimo, ma nemmeno la escludeva a priori. Documento, quello di luglio, votato in commissione e approvato all’unanimità da tutte le componenti. Le cose sono poi cambiate quando, il 12 agosto, il governo ha conferito al Cnel un incarico vero e proprio, concedendo i famosi sessanta giorni per consegnare un elaborato sul lavoro povero e il salario minimo. Il documento approvato giovedì, però, non solo non contempla nemmeno lontanamente la possibilità di una soglia salariale per legge, ma addirittura ne definisce criticità e aspetti negativi. Secondo il Cnel, oltre che tutt’altro che risolutivo, un intervento legislativo sul salario sarebbe infatti dannoso per diversi motivi, e lo sarebbe anche per gli stessi sindacati, vanificandone il ruolo nella definizione delle retribuzioni. Dubbi coincidenti con quelli espressi dalla Cisl, unica, tra i grandi sindacati, a votare si al testo, in nome della storica contrarietà a qualunque intervento legislativo che intervenga nel rapporto tra il sindacato, i suoi iscritti, le sue controparti.
Si diceva che dal punto di vista tecnico il testo e le proposte del Cnel sono interessanti: puntare tutto sul rafforzamento della contrattazione dovrebbe essere musica per le orecchie dei sindacati, così come l’ipotesi di prevedere una sorta di richiamo per le imprese che tardano a rinnovarli e l’insieme complessivo delle proposte contenute nel documento. Tuttavia, esiste anche un piano politico da tenere in considerazione, e da questo punto di vista il lavoro del Cnel è stato quanto meno una occasione persa. Aver evitato di trovare una mediazione con le parti che, come Cgil e Uil, propendevano a favore del salario minimo, ha avuto l’esito di irrigidirne le posizioni, portando al voto contrario in assemblea. Aver respinto anche l’emendamento dei cinque consiglieri di nomina quirinalizia (proponeva una sperimentazione molto soft, per piccoli settori, del salario minimo) confermerebbe l’intenzione di non mediare affatto. Il risultato è che il documento è passato con 39 voti a favore e 15 contro. E sarebbe sbagliato minimizzare il peso di questi voti contrari, visto che equivalgono a quasi un terzo dei votanti effettivi, 54 in tutto. Sui 64 membri del consiglio, infatti, dieci non si sono espressi, per assenza o altro. Inoltre, come diceva la buonanima di Enrico Cuccia, “i voti si pesano e non si contano”: vale anche in questo caso, considerando che due delle più importanti confederazioni su tre si sono chiamate fuori (numeri alla mano, Cgil e Uil rappresentano la maggioranza sindacale nel paese), così come cinque degli otto consiglieri esperti nominati da Mattarella, sui dieci complessivi.
Questo porta a due considerazioni. La prima è che il documento consegnato giovedì sera nelle mani della premier Meloni avrebbe avuto un forte valore politico se approvato all’unanimità, mentre così risulta quanto meno indebolito. La seconda considerazione è che lo scopo dichiarato più volte dal presidente del Cnel è di riportarlo al suo ruolo originario di “casa” delle parti sociali e dei corpi intermedi, con un compito importante di consulenza dei governi, come è stato anche recentemente con il parere sulla Nadef, rilasciato con il consenso unanime; ma se ha ragione Brunetta quando dice “sono i sindacati che si sono divisi”, riferendosi a Cgil e Uil che hanno “cambiato idea” rispetto alla loro precedente contrarietà al salario minimo, resta che forse si poteva fare qualche sforzo in più per tenerli assieme, trovando una mediazione. Il rischio, ora, è che un Cnel diviso finisca per risultare “di parte”; e non a caso proprio il vicepresidente cislino, Claudio Risso, ha saggiamente invitato, una volta archiviata la questione del salario minimo, a mettersi subito al lavoro per ricomporre l’unità.
Nunzia Penelope