Si sostiene che spesso uno slogan efficace oscuri l’analisi per un bel po’ di tempo. È il caso della discussione sul salario minimo, soprattutto per la ragione che questo tema viene affrontato in modo avulso da tutto quello che è avvenuto negli ultimi trenta anni sul piano salariale. La memoria del passato, si sa, è fuori moda, ma in tal modo si rischia di precludersi una lettura della attualità che sia in grado di arrivare al cuore dei problemi che si devono fronteggiare.
Quando nel 1993 il governo Ciampi e le Confederazioni stipularono un accordo per salvare l’Italia dalla catastrofe economica (ma anche sociale), si immaginò di aver stipulato un patto che avviava un nuovo sistema di relazioni industriali. All’interno di esso vi era la moderazione salariale, che era controbilanciata, però, sia da un rinnovato tentativo di politica dei redditi, sia dalla attenzione alle questioni dello sviluppo e della produttività dell’apparato produttivo, sia ancora dalla certezza sul sistema della contrattazione su due livelli. Ci si svincolava definitivamente dalla scala mobile, che del resto era stata di fatto cancellata l’anno prima, ma si puntava a superare una fase travagliata dell’economia nazionale oltre la quale ritrovare cadenze e scelte delle politiche rivendicative più “normali”, compreso quindi anche il superamento della moderazione salariale che invece rimase come punto di riferimento per i contratti per gli anni successivi come se l’allarme per l’inflazione si fosse “incantato” senza più cessare. L’avvento dell’euro da questo punto di vista prolungò ancora le sponde ristrette della vicenda salariale, tanto che oggi si cita l’Ocse quando si vuol dimostrare che i salari italiani sono fra i più bassi dell’area maggiormente sviluppata al mondo.
In realtà a congiurare contro il decollo di una nuova stagione sul piano salariale fu per un verso il fallimento della politica dei redditi, e per l’altro i passi indietro compiuti sul terreno della produttività e su quello degli investimenti. Due freni non da poco per realizzare un assetto davvero nuovo della storia economica e sociale.
Alcuni tentativi di correzione di tale situazione ci furono: basti ricordare quello della commissione Giugni del 1997, o l’intesa che stabiliva l’Ipca, ovvero un meccanismo in grado di riacciuffare l’andamento del costo della vita. Un modo per tornare ad una maggiore libertà di intervento sulla materia salariale. Ma è facile notare come tali ricerche non furono in grado di affrontare i mutamenti che la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica apportavano alle economie. La delocalizzazione delle attività industriali, la precarizzazione del lavoro e l’aumento di piccole e medie imprese, ad esempio, non potevano non provocare cambiamenti anche sulla politica contrattuale, come pure sulla dinamica dell’ascensore sociale.
Il vero problema allora, nuovo nella sua dimensione, è quello che anche lavorando si resta poveri. Naturalmente la risposta del salario minimo può restringere il campo di azione per impedire che quella considerazione diventi immutabile nel tempo. La sua introduzione ha senso se riferita a quel segmento del mondo del lavoro davvero privo di capacità contrattuale e retribuito ben al di sotto della decenza. Ma il suo valore probabilmente finisce lì, e non giustifica una sorta di guerra di religione che sul piano politico ha preso il posto della riflessione e del confronto.
In realtà proprio la risalita dell’inflazione ha messo in luce il limite maggiore della discussione sui temi salariali: gli interventi governativi figurano nella casella di una improvvisata assistenza ai redditi più poveri, mentre il destino di gran parte delle retribuzioni, cui si lega anche quello della organizzazione sociale, rimane del tutto insoluto. Probabilmente su questo versante si deve anche constatare un ritardo delle organizzazioni sindacali sulle strategie salariali da porre in essere, anche per costringere gli interlocutori politici ed istituzionali a misurarsi su un terreno non solo più ampio ma anche di prospettiva.
Anche perché si sa bene che una legge sul salario in quanto tale non avrebbe la forza di ridurre gli spazi occupati dal lavoro nero, dai contratti pirata, dallo squilibrato rapporto di forza fra imprenditore e lavoratore in tempi difficili come gli attuali. Né, forse, anche l’invocazione della attuazione dell’art. 39 della Costituzione risolverebbe appieno con l’estensione erga omnes dei contratti supportata dalla definizione della rappresentanza, in quanto è la frammentazione del mondo del lavoro e sono le incognite sul futuro in primo luogo manifatturiero del Paese a creare ostacoli difficilmente superabili con qualche norma e con ulteriori proibizioni.
Ci vorrebbe ben altro coraggio: riprendere in mano la questione salariale così come si è via via composta e scomposta, fino a creare almeno in apparenza una giungla inestricabile di trattamenti e di percorsi professionali, e con pazienza e spirito aperto al confronto rimettere in fila i vari problemi: cercando, con il sostegno di politiche di crescita, non illusorie proposte capaci di riformare l’intero sistema salariale nelle forme più adeguate all’economia reale ed alla sua evoluzione.
Una svolta è necessaria, ad essa probabilmente non si arriva con il ping-pong politico sul salario minimo che fa fatica ad uscire dai territori della reciproca propaganda.
Le difficoltà da affrontare non sono del resto poche: la politica ha bisogno di sentirsi protagonista, ben lontana da quella filosofia della legislazione di sostegno che parte da un diverso protagonismo, quello delle forze sociali. Gli stessi attori imprenditoriali mostrano meno propensione ad impegnarsi su un percorso diverso da quella di una amministrazione dell’esistente che non risolve e non copre neppure le esigenze del mondo del lavoro per intero. E non è un mistero che vi è anche l’esigenza di un lavoro comune fra le Confederazioni, per far valere le sacrosante rivendicazioni avanzate in questo periodo e che trovano finora porte chiuse, in particolare dal Governo.
Eppure, occorre trovare strade diverse per non cristallizzare comunque salari e stipendi in un assetto che apparentemente risulterebbe più equo, ma in realtà potrebbe solo anticipare il montare di una percepibile, se pur non esplicita, insoddisfazione della classe lavoratrice per il riconoscimento complessivo del proprio lavoro. Anche ammesso che la vicenda del salario minimo finisse in modo positivo, e si può fare, si aprirebbe inevitabilmente un più grande problema di assetti professionali e salariali che riguarda già oggi, sia pure nella penombra, milioni di lavoratori. A quel punto la protesta non basterebbe più, evitare di trovarsi impreparati sarebbe di conseguenza saggio ed utile.
Paolo Pirani – Consigliere CNEL