Qui, sul Diario del lavoro, abbiamo già scritto più volte che la vicenda sindacale e, prima ancora, industriale dell’Ilva, o, se preferite, dell’ex Ilva, è di gran lunga la più complicata che si sia vista nel nostro Paese. Ciò, innanzitutto, perché si tratta di una vicenda che si dipana, ormai, da più di un secolo, visto che la prima società denominata Ilva fu fondata a Genova nel lontano 1905. Lungo un periodo di quasi 120 anni, l’Ilva e le società che da essa sono germogliate, o che con essa si sono intrecciate, hanno visto più volte cambi di denominazione, di proprietà, e di insediamenti produttivi. Ma ciò, a quanto pare, non bastava. Perché dopo un secolo di storia ricco di accadimenti e di svolte, negli ultimi dieci anni è successo di tutto e di più.
Come si è detto, la Società anonima Ilva, che prese il suo nome da quello latino dell’isola d’Elba – isola dotata, un tempo, di miniere di ferro – fu fondata a Genova nel 1905. Dopo vari avvenimenti, negli anni Trenta entrò a far parte dell’Istituto per la ricostruzione industriale (in sigla, Iri), fondato dal regime fascista per reagire alle conseguenze della crisi economica mondiale del 1929.
Dopo la Seconda Guerra mondiale, sempre nell’ambito dell’Iri, prese vita, sotto la guida di Oscar Sinigaglia, il cosiddetto Piano Sinigaglia. L’Ilva era allora proprietà della Finsider, la finanziaria siderurgica dell’Iri, e la siderurgia italiana fu riorganizzata puntando sull’integrazione di tre grandi centri siderurgici attivi lungo le coste tirreniche: Cornigliano (a Genova), Piombino (in provincia di Livorno) e Bagnoli (a Napoli).
Nel 1949, inizia poi, a Taranto, la costruzione del cosiddetto “quarto centro siderurgico” a ciclo integrale. Lo stabilimento pugliese entrerà in funzione nel 1965. Intanto, il nome Ilva è scomparso dal panorama industriale. Dalla metà degli anni Sessanta, si parla ormai solo di Italsider. Denominazioni a parte, quello che è certo è che, dal secondo dopoguerra agli anni del boom, il contributo che la produzione pubblica di acciaio ha dato prima alla ricostruzione postbellica, e poi allo sviluppo industriale del nostro Paese, è stato decisivo.
Ma ecco che, sul finire del secolo scorso, si arriva all’epoca delle grandi privatizzazioni. Dopo la chiusura dello stabilimento di Bagnoli, Piombino viene acquisito dal gruppo Lucchini, mentre Taranto, Cornigliano e Novi Ligure (in provincia di Alessandria) entrano a far parte del gruppo Riva. L’Italsider non c’è più e torna in voga l’antico nome dell’Ilva.
I guai cominciano quando esplode la questione ambientale. Il 26 luglio del 2012 la Procura della Repubblica di Taranto lancia la sua offensiva giudiziaria che porta a 8 arresti e, soprattutto, al sequestro dell’impianto. Ed è da qui, da questa data infausta, che inizia l’attuale storia dell’Ilva. Una storia in cui i protagonisti si moltiplicano e, attorno al più grande stabilimento siderurgico d’Europa, prende avvio una sorta di guerra di tutti contro tutti. Ambientalisti, Magistratura, poteri locali (Comune di Taranto e Regione Puglia), imprese dell’indotto, sindacati, partiti, Governo nazionale.
I vertici sono azzerati, l’impianto è fermo. Che fare? Nel giugno 2013, il neo-nato Governo Letta sottopone l’Ilva al Commissariamento straordinario. Nel gennaio 2015, sotto il Governo Renzi, l’Ilva è ammessa alla procedura di Amministrazione straordinaria. Nel giugno 2017, sotto il Governo Gentiloni, all’esito di una gara internazionale indetta dal Ministero dello Sviluppo economico (Mise), retto allora da Carlo Calenda, l’Ilva viene aggiudicata a ArcelorMittal, gruppo indiano-lussemburghese che è anche il più grande produttore di acciaio a livello mondiale.
Si poteva sperare che, da quel momento, potesse iniziare una nuova storia positiva per quella che, a questo punto, è ormai diventata, sulle pagine dei giornali, la ex Ilva. E invece no. Perché l’ala grillina del primo Governo Conte, formatosi dopo le elezioni del 2018, prende di mira, con argomentazioni ambientaliste, lo stabilimento di Taranto. Per i Cinque Stelle l’importante non è proseguire nell’opera di ambientalizzazione del centro siderurgico, già avviata, per impulso di Calenda, sotto il Governo Gentiloni. L’importante è esibire la propria intransigenza ambientalista.
Il casus belli è costituito dalla questione del cosiddetto “scudo penale”, ovvero da norme volte a porre al riparo la nuova dirigenza ArcelorMittal da responsabilità penali relative a una situazione ambientale determinatasi prima dell’arrivo della nuova società. Secondo ArcelorMittal, non difendendo tali norme, il Governo italiano viene meno agli impegni presi. E così qui qualcosa si rompe, forse irreparabilmente, fra il quartier generale di ArcelorMittal e il nostro Paese.
Inizia così un periodo particolarmente confuso, in cui ArcelorMittal manifesta l’intenzione di abbandonare l’impresa italiana. Ma ecco che, verso la fine del secondo Governo Conte, si profila un cambio di scenario. Nel dicembre 2020, la stessa ArcelorMittal annuncia di aver firmato con Invitalia, ovvero con l’Agenzia nazionale italiana per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del Ministero dell’Economia, un “accordo di investimento (…) per formare una partnership pubblico-privata”.
Il 15 aprile 2021, quando ormai è già attivo il Governo guidato da Mario Draghi, nasce ufficialmente Acciaierie d’Italia. L’accordo prevede che il 62% del capitale della nuova società sia di ArcelorMittal, mentre il restante 38% sia di Invitalia. I diritti di voto nel Consiglio di amministrazione, peraltro, saranno suddivisi al 50%, mentre ArcelorMittal avrà il potere di nominare l’Amministratore delegato e Invitalia quello di nominare il Presidente.
Infatti, la carica di Amministratore delegato è tuttora detenuta da Lucia Morselli, che fu chiamata nel 2019 ad assumere lo stesso incarico per ArcelorMittal Italy. Dal luglio 2021, è invece Presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè. Un manager stimatissimo, la cui nomina risalirebbe a una candidatura formulata personalmente da Mario Draghi, allora Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ed eccoci arrivati a oggi. Ovvero a una fase ancora più confusa in cui i sindacati percepiscono con allarme una situazione di stallo in cui non si riesce a capire quali siano le vere intenzioni strategiche di ArcelorMittal. Allarme relativo a una situazione in cui, innanzitutto, non si è verificata la promessa crescita produttiva, tanto che il 2023 si chiuderà, con ogni probabilità, con una produzione inferiore a quella del 2022. Allarme, ancora, relativo a una situazione in cui non si vedono investimenti, l’Azienda ricorre in misura massiccia alla Cassa integrazione, facendo calare i redditi dei lavoratori, e in cui perfino la manutenzione ordinaria sembra collocarsi al di sotto di una soglia accettabile. Quell’allarme, infine, da cui è nato lo sciopero di 24 ore, effettuato ieri nello stabilimento di Taranto.
D’altra parte, all’osservatore esterno non risulta chiaro neppure quale sia l’intendimento del socio pubblico di Acciaierie d’Italia. E ciò non dipende certo dal lavoro che Bernabé sta svolgendo in silenzio, ma da contrasti che si sono palesati all’interno della compagine governativa.
Sugli organi di informazione, infatti, si è parlato di un contrasto tra Urso, a capo del nuovo dicastero delle Imprese e del Made in Italy, e Fitto, responsabile, fra le altre cose, per l’attuazione del Pnrr. Innanzitutto, infatti, mentre Urso sarebbe stato favorevole all’acquisizione del controllo di AdI da parte di Invitalia entro tempi ravvicinati (a maggio del 2024), Fitto sarebbe favorevole a lasciare il controllo di AdI ad ArcelorMittal. Inoltre, proprio a Fitto risalirebbe la decisione di prendere le risorse volte a finanziare l’introduzione a Taranto della tecnologia del forno elettrico, maggiormente ecocompatibile dell’altoforno, non più dal Pnrr, come previsto, ma dai Fondi di coesione dell’Unione europea. E ciò a causa del fatto che l’utilizzo dei fondi del Pnrr è legato a date non valicabili, mentre l’utilizzo dei Fondi di coesione può essere effettuato anche in tempi più lunghi.
Fatto sta che, in questa situazione di rinnovata incertezza, Bernabé, in una recente intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno, è giunto a dichiarare che, innanzitutto, “bisogna garantire la sopravvivenza dell’azienda” e che, quindi, “l’urgenza è mettere subito a disposizione risorse”. Dopodiché, è circolata la voce che lo stesso Bernabé sarebbe pronto a fare un passo indietro e a lasciare la Presidenza di Acciaierie d’Italia.
@Fernando_Liuzzi