Giovedì 28 settembre: a Taranto, 24 ore di sciopero allo stabilimento di Acciaierie d’Italia, il più grande centro siderurgico d’Europa. Un’iniziativa unitaria di lotta che, secondo i sindacati promotori, ha avuto una “grande riuscita” e che ha una doppia valenza: locale e nazionale.
Locale, perché la data scelta per lo sciopero è la stessa che era stata scelta in precedenza da Acciaierie d’Italia, la società a capitale misto attualmente proprietaria del siderurgico, per organizzare lo Steel Commitment 2023, ovvero un evento di presentazione dei propri prodotti cui erano stati invitati clienti nazionali ed esteri.
Ma locale anche perché l’iniziativa di lotta non ha incontrato solo “un’altissima partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori ex Ilva”, ma anche quella dei dipendenti dell’Ilva in Amministrazione Straordinaria, nonché quella dei dipendenti delle ditte d’appalto. A Taranto, infatti, la giornata di lotta è stata organizzata non solo dai sindacati dei metalmeccanici, ma anche da quelli delle costruzioni, dei trasporti e dei servizi privati.
Locale, infine, perché i presidi organizzati davanti a tutte le portinerie di ingresso alla fabbrica avevano lo scopo di inviare all’Azienda un preciso messaggio: nel mondo contemporaneo, una grande azienda industriale che voglia presentare con orgoglio ai suoi potenziali clienti i propri prodotti, deve essere riuscita, in precedenza, a presentare ai suoi dipendenti i propri programmi produttivi come programmi credibili. Ovvero deve aver comunicato, con i fatti, a questi stessi dipendenti, un’idea di futuro. O, per dir meglio, l’idea di un futuro che sia profittevole anche per i lavoratori. E questa è la cosa che è mancata totalmente nei difficili rapporti che l’Azienda ha avuto, in questi anni, non solo con i suoi dipendenti, diretti e indiretti, ma anche con tutta la città che ospita lo stabilimento.
Ma veniamo alla valenza nazionale dello sciopero tarantino. La necessità dell’iniziativa di lotta era stata confermata, nella serata di mercoledì 27 settembre, dai tre sindacati “confederali” dei metalmeccanici, ovvero da Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil. E ciò era avvenuto proprio al termine di un infruttuoso incontro che gli stessi tre sindacati avevano avuto, a Palazzo Chigi, con una consistente delegazione governativa.
In precedenza, infatti, Fim, Fiom e Uilm si erano rivolti alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sollecitando un incontro urgente in cui discutere, appunto, dell’assenza di prospettive comprensibili che caratterizza la contrastata vita dello stabilimento tarantino e degli altri stabilimenti ex Ilva che sono stati raggruppati in Acciaierie d’Italia. Tale incontro si è svolto, quindi, nel pomeriggio di mercoledì 27 e ad esso hanno partecipato, per parte governativa, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, e i ministri del Lavoro, Marina Calderone, e delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, nonché quello per gli Affari europei, le politiche di Coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto.
Al termine, i sindacati, le cui delegazioni erano guidate dai segretari generali Roberto Benaglia (Fim), Michele De Palma (Fiom) e Rocco Palombella (Uilm), hanno emesso un comunicato in cui hanno dichiarato di ritenere che “l’incontro non abbia fornito le risposte che auspicavamo rispetto ai tantissimi problemi evidenziati”, nonché rispetto alle “criticità da noi più volte denunciate circa il gruppo ex Ilva”.
Nello stesso comunicato, i sindacati hanno anche dichiarato di aver ricordato, nel corso della discussione, “tutti gli impegni disattesi da parte di ArcelorMittal”.
Per comprendere il senso di questa accusa lanciata ad ArcelorMittal, sarà forse il caso di ricordare che, attualmente, il capitale di Acciaierie d’Italia, la società proprietaria dei complessi industriali un tempo appartenuti all’Ilva, è posseduto al 62% dall’indiano-lussemburghese ArcelorMittal, mentre il restante 38% è detenuto da Invitalia, società italiana a capitale pubblico.
Ma torniamo al comunicato sindacale. Fim, Fiom e Uilm imputano dunque ad ArcelorMittal le seguenti responsabilità:
“ – mancata applicazione del piano industriale condiviso con i sindacati con l’accordo sottoscritto in sede ministeriale il 6 settembre 2018;
– mancato mantenimento dell’occupazione, con la messa in Cassa integrazione di circa 5.000 lavoratori, oltre a quelli dell’indotto;
– mancato raggiungimento dell’obiettivo di 6 milioni di tonnellate annue di acciaio, anche in fase di massima richiesta di mercato;
– mancato rifacimento dell’altoforno Afo 5, sempre annunciato e mai realizzato;
– mancati investimenti per l’efficienza degli impianti, con gravi rischi di sicurezza;
– mancata trasparenza sull’utilizzo dei 400 milioni per l’ingresso di Invitalia nel capitale sociale e degli ulteriori 680 milioni immessi quest’anno dallo stesso socio pubblico;
– nessuna certezza sui tempi di reintegro dei lavoratori di Ilva in AS (Amministrazione Straordinaria)”.
Se queste sono le responsabilità che i sindacati dei metalmeccanici imputano all’Azienda e, in particolare, ad ArcelorMittal, va detto che, nel comunicato di cui stiamo parlando, non mancano neppure dissensi espliciti nei confronti dell’Esecutivo.
Innanzitutto, infatti, i sindacati dei metalmeccanici si dichiarano insoddisfatti rispetto all’assenza di comprensibili strategie governative, lamentando di non aver ricevuto, nell’incontro di mercoledì 27, “nessuna ‘chiara’ risposta su come il Governo intenda risolvere questa annosa vertenza”.
In secondo luogo, ciò che più ha deluso i sindacati è l’atteggiamento non sufficientemente critico mostrato dal Governo stesso nei confronti di ArcelorMittal.
Infatti, i sindacati hanno affermato di essere rimasti “stupiti ed esterrefatti” per “aver appreso dal Governo dell’interlocuzione in atto con ArcelorMittal”. Interlocuzione, si precisa, volta a “raggiungere un nuovo accordo, dopo quello di marzo 2020 a noi a tutt’oggi sconosciuto”. E qui par di capire che ciò che ha suscitato la “chiara contrarietà” dei sindacati non sia tanto l’idea in sé di un nuovo accordo fra Governo e ArcelorMittal, quanto il timore, basato sulle più recenti esperienze avutesi in casa ex Ilva, che il Governo stesso cerchi “un ennesimo accordo escludendo dalla discussione le organizzazioni sindacali e quindi i lavoratori”.
I sindacati rincarano poi la dose, affermando che “ciò che si è avuto fino a oggi” alla ex Ilva è stato “l’aver mortificato i lavoratori con il mancato rispetto delle leggi e dei contratti di lavoro”, nonché con “l’uso massiccio della Cigs (Cassa integrazione guadagni straordinaria)” e con “il depauperamento delle professionalità e delle competenze presenti in azienda”.
Conclusione: “I risultati economici e produttivi e quelli sociali dimostrano, a oggi, l’inaffidabilità del management di AdI”. E ancora: “Auspichiamo che questo Governo, a differenza di quelli precedenti, non si faccia condizionare dal Socio privato” (cioè, specifichiamo noi, da ArcelorMittal); socio che “con la sua gestione, in questi anni, ha sprecato risorse pubbliche e ha fatto pagare un prezzo altissimo a lavoratori e cittadini”.
Morale della favola: i rapporti fra i sindacati dei metalmeccanici e Acciaierie d’Italia, specie per ciò che si riferisce ai comportamenti del socio ArcelorMittal, sono a livelli minimi. Ma anche quelli col Governo non fanno intravedere sbocchi positivi ravvicinati.
Intanto, Fim, Fiom e Uilm hanno fatto sapere che “nei prossimi giorni verrà convocato il Coordinamento nazionale unitario delle Rsu di tutti gli stabilimenti del Gruppo per decidere le iniziative da mettere in campo”. Un primo appuntamento è stato fissato per lunedì 2 ottobre a Genova.
@Fernando_Liuzzi