Credo di avere una sola cosa in comune con Maurizio Landini: siamo nati ambedue in Emilia Romagna; io vent’anni prima di lui a Bologna; Landini a Castelnovo né Monti in provincia di Reggio Emilia, una località sull’Appennino dove non sono mai riuscito a salire senza trovare la neve. Non mi sento però di partecipare alla sarabanda in cui è incorso per il c.d. caso Gibelli. In verità dovrei essere contento di vederlo in difficoltà a sottrarsi all’assedio dei giornalisti a cui è solito esternare quelle idee che io giudico demagogiche e confuse. Perché considero un argomento molto stupido quello di accusarlo di incoerenza per aver applicato, nel ricorso al licenziamento di Massimo Gibelli, l’odiato jobs act per l’abolizione del quale sta agitando come una clava la minaccia di un referendum abrogativo. Se c’è stato un comportamento discutibile esso riguarda il licenziamento in sé, per la brutalità con cui è avvenuto e per la sua eccezionalità, poiché un sindacato non è solito licenziare qualcuno, senza arrivare ad una soluzione concordata dopo aver convenuto l’inesistenza di altre possibilità di impiego, in attesa della maturazione della pensione. Anzi in questa linea di condotta un giudice potrebbe trovare anche dei motivi di illegittimità della risoluzione del rapporto di lavoro se la Cgil non riuscisse a dimostrare l’impossibilità di reimpiego in un’organizzazione tanto grande e diffusa. Ma – lo ripeto – la questione è il licenziamento, non le norme a cui la Cgil ha fatto ricorso. Se un datore di lavoro intende licenziare un proprio dipendente deve procedere applicando la disciplina vigente. E’ il medesimo ragionamento che si potrebbe fare in altre circostanze: Landini contesta la riforma fiscale, ma una volta che la legge fosse approvata non lo si potrebbe accusare di incoerenza perché paga le tasse sulla base delle aliquote vigenti. Poi, nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo il jobs act non c’entra nulla perché questa fattispecie fu introdotta nel 1966 con la legge n.604, che recepiva l’ultimo accordo interconfederale sui licenziamenti individuali. Il giudice potrebbe obiettare sulla validità del motivo in base a un dato di fatto e cioè che il posto di portavoce era stato soppresso (il motivo oggettivo) da un paio di anni senza che succedesse nulla per la continuità del rapporto di lavoro. Ecco perché non reggono le polemiche contro Landini e la Cgil con l’impostazione che hanno dato i media, persino quelli seri. Allo stesso modo trovo assurdo che si vada a spettegolare sull’anzianità contributiva e l’età anagrafica del segretario ai fini pensionistici, col pretesto che resta al lavoro togliendo spazio ai giovani a cui dedicata molta attenzione nella polemica con il governo. Arrampicandosi sugli specchi si potrebbe far notare a Landini che – a parte le mansioni usuranti e gravose – egli stesso è un esempio vivente di come si possa e si debba elevare l’età del pensionamento. Considero il leader della Cgil un demagogo per di più pericoloso, proprio perché è il capo assoluto della più potente organizzazione di massa sopravvissuta in Italia e che ha lanciato un’Opa sulla Uil. Ma chi lo vuole criticare ha davanti a sé delle praterie sconfinate per quanto riguarda le posizioni politiche, sul mercato del lavoro e sulle pensioni in particolare. Non trasformiamo Massimo Gibelli in un martire; per di più con trent’anni di ritardo. I socialisti – quelli che non hanno saltato il fosso – sono stati emarginati in Cgil quando Gibelli faceva il portavoce dei segretari generali che hanno demolito la cultura pluralista e riformista di questo grande sindacato. Pensi per un attimo a come è stato abbandonata dalla Cgil una personalità come Ottaviano Del Turco, che Gibelli definisce quasi un “fratello maggiore”. Oppure rifletta sull’oblio riservato ad un altro grande segretario socialista come Dino Marianetti. Non vorrei incorrere nell’infortunio del first gentlemen Giambruno; ma nella Cgil di oggi Gibelli avrebbe dovuto aspettarsi il trattamento ricevuto. In una organizzazione totalitaria è inutile pretendere uno stato di diritto.
Giuliano Cazzola