Matteo Renzi ha sfidato Elly Schlein a un confronto pubblico sul Jobs Act. Alla notizia che la Cgil potrebbe avviare una raccolta di firme per abrogare con un referendum alcune parti di quella legge, e che la segretaria del Pd non sarebbe aliena dall’appoggiare questa iniziativa, il leader di Italia Viva ha colto la palla al balzo per cercare un po’ di centralità, in questi mesi difficili per il suo partito. E così ha accusato la segretaria dem di tradire le radici del suo partito che quella legge ha voluto, votato e difeso nelle fabbriche. Confrontiamoci su questa legge alla festa dell’unità a Ravenna, ha proposto Renzi, o in subordine alla nostra iniziativa a Santa Severa, e vediamo chi ha ragione. Un tentativo di cercare visibilità creando spaccature negli altri partiti, ha commentato Maria Cecilia Guerra, responsabile del lavoro del Pd. E per questo la sfida del leader di Italia viva non avrà risposta e non ci sarà alcun dibattito.
Stupisce la proposta di Renzi, che sa bene come il Jobs Act sia stato sì voluto fortemente dal Pd, ma dal Pd a guida sua, di Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio dei ministri e segretario del partito. Un partito molto diverso dall’attuale, guidato dalla Schlein che non nasconde di volerne cambiare l’anima. Il Pd ha già ripudiato i tempi di Renzi, che del resto lo ha abbandonò per fondare un altro partito, e un ritorno al passato non farebbe il gioco di nessuno, se non dello stesso ex segretario.
Eppure, sarebbe interessante assistere a un confronto vero su questa legge, che è stata molto divisiva, ha suscitato grandi amori e grandi odi. La matrice ideologica alla base del Jobs act era certamente un positivo sguardo in avanti. Sulla scia delle idee che professava Marco Biagi dalla fine del secolo scorso, e che vedevano al centro dell’azione riformatrice la persona, il Jobs Act spostò l’attenzione dal posto di lavoro all’occupabilità del lavoratore. Non era importante salvaguardare a tutti i costi l’occupazione, mantenendo fermo il rapporto tra il lavoratore e l’impresa che lo occupava, quanto mettere il lavoratore nella condizione di trovare facilmente un altro lavoro se ne avesse avuto la necessità. Uno sguardo al futuro, che anticipava quello che poi è accaduto, basti pensare a cosa sono oggi lo smart working, il fenomeno delle grandi dimissioni, o quello del quite quitting. Allora, sulla base appunto della centralità della persona, fu smantellato l’articolo 18 dello Statuto, che aveva come obiettivo proprio la difesa del posto di lavoro, e si puntò sulla mobilità che del resto stava diventando centrale nelle politiche del lavoro e nella realtà di quello dipendente.
Una politica, dunque, con lo sguardo che puntava a un futuro obbligato, ma che poggiava su qualcosa che non esisteva. I decreti attuativi del Jobs Act, infatti, prevedevano solo la prima parte di quel piano, appunto lo smantellamento di alcune garanzie del lavoratore. Doveva poi arrivare la seconda parte, quella che avrebbe messo chi perdeva il lavoro nella condizione di trovarne facilmente uno nuovo. Il problema è che questa seconda parte non è mai arrivata. Avrebbe dovuto esserci una sostituzione di garanzie, invece sono state tolte quelle che c’erano ma non ne sono arrivate di nuove. Non sono arrivate le politiche attive del lavoro, fatte di formazione, facilità di incontro tra domanda e offerta, aiuto economico nel momento in cui fosse cessata la garanzia della retribuzione.
Queste nuove norme non arrivarono per un errore proprio di Matteo Renzi, che non calcolò con attenzione le forze necessarie per portare a casa la seconda parte del suo disegno. Si trattava di forzare la Costituzione, cambiare assetti giuridici storici, inventarsi una nuova politica e supportarla con l’aiuto di una falange di esperti motivati. Compito complesso che Renzi non riuscì a eseguire poiché perse gli appoggi indispensabili. Sentendosi forte per i risultati del voto alle europee che catapultò il Pd sopra il 40%, non si dedicò con la necessaria attenzione a mantenere quel consenso, ma si alienò importanti fette del suo elettorato naturale, con il risultato che quando presentò la riforma costituzionale, che tra l’altro aveva arricchito o meglio appesantito con tante altre riforme, probabilmente superflue, si trovò indebolito, e soprattutto solo. All’esame del referendum del 2016 la riforma costituzionale fu bocciata. Con il risultato che il Jobs Act, che avrebbe dovuto essere una grande e positiva riforma della normativa del mondo del lavoro, rimase acefalo e si risolse in una riduzione delle garanzie dei lavoratori.
Questo significa che sarebbe giusto, oggi, indire un referendum per eliminare almeno le più vistose norme del Jobs Act? Già la Cgil di Susanna Camusso tentò questa strada e non riuscì a portare a casa molto: solo l’addio, da parte del governo Gentiloni, all’uso dei voucher, che peraltro, messi alla porta, sono poi rientrati dalla finestra. Forse la cosa migliore, oggi, sarebbe tentare di impegnarsi davvero per attuare quelle politiche attive del lavoro che non riuscirono mai a vedere la luce. Un compito complesso, che darebbe però forza e identità all’opposizione. E la legge sul salario minimo potrebbe essere il primo passo. Poi dovrebbero seguire gli altri.
Massimo Mascini