Un operaio addetto alla linea del reparto di lastro ferratura, con anzianità di servizio di quasi trent’anni, è stato licenziato per giusta causa per essere stato denunciato dalla sua convivente per maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali; in conseguenza di questa denuncia, il convivente-lavoratore era stato posto per alcuni giorni agli arresti domiciliari e immediatamente dopo solo all’obbligo di firma. Il Tribunale, sia nella fase sommaria del rito Fornero sia nella fase a cognizione piena, ha rigettato l’impugnazione ritenendo il licenziamento legittimo. Per il Tribunale, il licenziamento era giustificato per il disvalore sociale della condotta tenuta dal lavoratore. Il Tribunale ha, altresì, ritenuto fondata la circostanza affermata dall’azienda, nella lettera di contestazione di addebito, allorché aveva fatto riferimento al timore che il lavoratore avrebbe potuto tenere comportamenti analoghi anche all’interno dello stabilimento, considerata la sua indole minacciosa e violenta, soprattutto nei confronti di persone di sesso femminile, e il rilevante discredito sociale dei comportamenti tenuti, che avrebbero potuto provocare grave nocumento morale alla società.
La Corte di Appello di Roma, però, in accoglimento dell’impugnazione della sentenza e della domanda del lavoratore, dichiarava l’illegittimità del licenziamento, lo annullava e ordinava al datore di lavoro la reintegrazione nel posto di lavoro, con la condanna dell’azienda a pagare una indennità risarcitoria nella misura di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre i contributi previdenziali e assistenziali. La Corte di appello di Roma, a sostegno della sua decisione, ha affermato che “ affinché una condotta illecita extra lavorativa possa assumere rilievo disciplinare, è necessario che siano lesi gli interessi morali e/o materiali del datore di lavoro, oppure che sia compromesso il rapporto fiduciario; la verifica del carattere del “fatto illecito” va rapportata non alla responsabilità disciplinare, bensì al disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda, attesa la non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare, ciò al fine di evitare che ogni condotta, comunque accertata come reato, si traduca sempre in un illecito disciplinare e quindi idoneo a giustificare un licenziamento”.
Per la Corte di Appello la circostanza che il lavoratore potesse porre in essere i medesimi comportamenti consumati contro la sua convivente anche sul luogo di lavoro, è rimasta totalmente sfornita di qualunque riscontro oggettivo non avendo il lavoratore negli anni della sua prestazione lavorativa subito sanzioni o posto in essere comportamenti aggressivi, violenti o condotte sconvenienti, prepotenti e litigiose verso i colleghi o gli utenti.
L’azienda contro la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso in Cassazione che l’ha respinto, richiamando il seguente principio:
“in varie occasioni questa Corte ha ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento anche in presenza di condotte extralavorative, a condizione però che abbiano un riflesso anche solo potenziale, ma comunque oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, a causa della compromissione dell’aspettativa datoriale circa un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, “in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività” svolta dal dipendente licenziato”.
Nel caso sottoposto ad esame, la Cassazione ha ritenuto che le condotte tenute dal lavoratore “ai danni della propria convivente non avevano avuto alcuna incidenza, neppure riflessa, sull’ambiente lavorativo e, quindi, sul rapporto di lavoro, in considerazione sia della mancanza di qualunque eco mediatica, sia del carattere meramente esecutivo delle mansioni cui era adibito, sia della pluridecennale anzianità lavorativa presso la medesima società (fin dall’anno 1988) senza mai alcun episodio di violenza e alcun procedimento disciplinare. In definitiva, pur se deprecabile, la condotta del lavoratore. non è in grado di influire sul rapporto di lavoro neppure in via indiretta, né sul piano del clamore mediatico espressamente e motivatamente escluso dalla Corte territoriale. Va dunque ribadito il principio di diritto, secondo cui in tema di licenziamento disciplinare, qualora il grave nocumento morale e materiale sia parte integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta causa di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza, quale elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro, sicché in caso contrario resta preclusa la sussunzione del caso concreto nell’astratta previsione della contrattazione collettiva”.
Il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro perché il suo comportamento nei confronti della convivente sul piano lavorativo, ossia della sua incidenza sul rapporto di lavoro subordinato, non può dirsi “illecito”, bensì “neutro” e quindi non rilevante” ai fini disciplinari e alla prosecuzione del rapporto con il conseguente diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. Cassazione sezione lavoro ordinanza 25 luglio 2023 n. 22.077.
Biagio Cartillone