Salario minimo legale: dove eravamo rimasti? L’11 agosto Giorgia Meloni ha convocato i rappresentanti dei partiti di opposizione che avevano presentato all’inizio di luglio un progetto di legge unitario sul salario minimo di importo pari a 9 euro. In quell’occasione la presidente ha trovato il mondo di gettare la palla nella tribuna del Cnel recuperando quel momento di difficoltà in cui la maggioranza si era trovata quando aveva votato alla Camera il rinvio a settembre del dibattito, dopo aver rinunciato a votare l’emendamento soppressivo presentato in Commissione Lavoro. Ovviamente le opposizioni non hanno abbassato i toni della polemica, ma non c’è dubbio che il coinvolgimento del Cnel – incaricato di presentare un pacchetto di misure per il “lavoro povero” che non può essere affrontato solo con il salario minimo – ha introdotto degli elementi di novità. A partire da una messa in ordine dei dati, un aspetto sul quale la confusione era e rimane purtroppo tanta. L’infortunio più grave – presentato da un quotidiano come uno scoop – è stato quello di attribuire a Villa Lubin, uno studio riservato da cui emergerebbe che i lavoratori “beneficiati” dai 9 euro “legali” sarebbero stati solo 60mila. Questa è una notizia priva di fondamento che tuttavia è circolata sui quotidiani di destra, allo scopo di smentire l’utilità della misura.
Purtroppo, basta leggere con attenzione le memorie depositate in Commissione Lavoro della Camera durante le audizioni e prendere per tutte quella dell’Istat. “L’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro comporterebbe – è scritto – dunque un incremento della retribuzione annuale per 3,6 milioni di rapporti (se si escludono quelli di apprendistato si scende a poco più di 3,1 milioni, tra i quali 2,8 milioni sono per qualifica operaio). Per questi rapporti l’incremento medio annuale sarebbe pari a circa 804 euro pro-rapporto, con un incremento complessivo del monte salari stimato in oltre 2,8 miliardi di euro. L’adeguamento alla soglia minima di 9 euro determinerebbe un incremento sulla retribuzione media annuale dello 0,9% per il totale dei rapporti e del 14,6% per quelli interessati dall’intervento”. Da dove nasce – sempre che si tratti di buona fede – il numero di 60mila? L’unica giustificazione plausibile potrebbe derivare da una narrazione distorta del fenomeno del lavoro povero, per quanto riguarda il salario orario inferiore a 9 euro. Protagonisti di questa narrazione ingannevole sono gli stessi leader sindacali più autorevoli. In sintesi: la responsabilità sta nella diffusione crescente dei c.d. contratti pirata ovvero negoziati da organizzazioni non rappresentative in condizioni di dumping con controparti anch’esse pirata. Ne deriva che la soluzione non si trova solo nel fissare una soglia di retribuzione minima, ma anche nel varare una legge sulla rappresentanza che consenta di stabilire quali siano i contratti da estendere erga omnes in quanti stipulati da organizzazioni comparativamente più rappresentative. Questa versione dei fatti è passata sui media.
Ma si tratta di propaganda ingannevole che non fa onore a quanti la sbandierano sui grandi quotidiani. Il Cnel, nella memoria presentata alla Camera e nei report periodici relativi ai contratti depositati nell’Archivio nazionale, ha messo ordine nei numeri. Secondo l’ultima rilevazione (Report 17°) del Cnel, a luglio erano ben 1037 i contratti depositati, di cui 976 dei settori privati. Ma dei 434 CCNL applicati a 12.914.115 lavoratori, (sono esclusi i contratti agricoli e dei lavoratori domestici) sono 162 (37,3%) quelli firmati dalle maggiori organizzazioni sindacali confederali o comunque rappresentate nel Cnel e “coprono” 12.517.049 lavoratori (97%); mentre 272 contratti (62,7%) firmati da organizzazioni sindacali diverse da quelle confederali e non rappresentate al Cnel (ma in una certa misura “rappresentative”) “coprono” 387.066 lavoratori (3%). Questi contratti “minori” poi non vanno meccanicamente annoverati come “pirata”. E’ prassi consolidata che i medesimi testi dei rinnovi contrattuali stipulati dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil con le rispettive controparti, siano sottoscritti, separatamente, da una pletora di altre organizzazioni sindacali minori, autonome o dall’UGL, non accettate al tavolo del negoziato insieme ai confederali storici. Va da sé che analoghe procedure si svolgano per tutti i contratti nazionali riconducibili ad un settore. I testi sono sempre gli stessi, cambiano solo le rappresentanze firmatarie. Per questi motivi si spiega che il numero dei contratti “figli di un dio minore” sia maggiore di quelli di alto lignaggio. I medesimi contratti – in realtà- sono contati più volte come gli aerei di Mussolini e le vacche di Fanfani. I “contratti pirata”, invece, riguardano lo 0,3% del complesso dei lavoratori (in numero di 44mila). Da qui è derivato il finto scoop dei 60mila lavoratori interessati.
Come funziona l’arrembaggio dei pirati alla contrattazione corretta? Solitamente un’organizzazione sindacale spuria convince un gruppo di imprese in un determinato territorio a stipulare in dumping un contratto – che viene definito – nazionale. Questo imbroglio è possibile in base all’articolo 19 dello Statuto che, in seguito ad un referendum promosso da deficienti, riconosce i firmatari dei contratti applicati in azienda. Ma è un fenomeno deteriore che può essere contrastato già con le disposizioni vigenti e con la classificazione alfanumerica attuata, per legge, proprio dal Cnel e comunicata all’Inps. È facile trarre le conclusioni che i dati manifestano. Se i lavoratori cui si applicano i contratti pirata sono 44mila (comunque è un problema di alcune decina di migliaia di dipendenti), se sono più di 3 milioni i lavoratori sotto pagati, se a 12,5 milioni di essi si applicano (al di là del numero dei depositi) i contratti stipulati da Cgil, Cisl e Uil (la copertura fornita è pari al 97%), tutto ciò vuol dire che alla grande maggioranza dei lavoratori al di sotto dei 9 euro l’ora sono applicati i contratti sottoscritti dei sindacati “buoni”. E a questo punto si pone una nuova domanda. A che cosa serve una legge sulla rappresentanza quando il 97% dei contratti sono firmati da Cgil, Cisl e Uil. Che bisogno c’è di una complicata legge – che non potrebbe eludere l’articolo 39 Cost. da decenni ritenuto inapplicabile – quando il sistema ha già reso evidenti quali sono le organizzazioni più rappresentative? Per ammazzare le zanzare dei contratti pirata qualche leader sindacale è disposto a segare il ramo su cui è seduto senza che nessuno contesti alla sua organizzazione di essere comparativamente più rappresentativa? Questa definizione è contenuta in tutte le leggi che attengono al diritto del lavoro, agli appalti, alla correttezza degli adempimenti amministrativi. Che senso avrebbe andare a scoprire e a dimostrare ciò che è accettato pacificamente? La questione seria è un’altra. È vero che in Italia la copertura “confederale” dei contratti collettivi riguarda il 97% dei lavoratori, ma il 57% dei contratti dei settori privati è scaduto, magari da anni, con ricadute (dati Cnel) su 7,7 milioni di lavoratori. Nella sua lettera alla presidente del Consiglio Maurizio Landini ha chiesto un intervento del governo per sbloccare i rinnovi dei contratti. Meloni non può insistere sul ruolo prioritario della contrattazione collettiva per poi lasciarla languire così, soprattutto nel settore del terziario e dei servizi (dove è presente, secondo il Cnel, il 96% dei complesso dei contratti scaduti); ma anche Landini sa che la regola del “primum exsistere” è operante anche nel campo della contrattazione collettiva se si vuole ottenere le stimmate dell’estensione erga omnes.
Giuliano Cazzola