Si dice che il diavolo si nasconda nei dettagli. Nel caso della delega per la riforma fiscale appena approvata dal Parlamento (Legge 9 agosto 2023, numero 111) uno dei dettagli sui quali accendere i riflettori è la coda dell’articolo 14, al punto H/2.
Che cosa c’è scritto? Vi si parla di federalismo, di province e di città metropolitane. Più in particolare vi si prevede un tributo proprio e una compartecipazione a un tributo erariale di carattere generale sia per le province (evidentemente tornate in auge), sia per le città metropolitane.
I dettagli da approfondire sono almeno due. Il primo, più generale, riguarda la implicita previsione di nuove imposte. Nel testo della delega si aggiunge un “anche” in sostituzione di tributi attualmente esistenti. Ma “anche” è una possibilità, non una certezza. In una fase in cui si contano i centesimi e mancano risorse per fare le iniziative ritenute più urgenti e necessarie, la possibilità diventa a dir poco remota. Per un governo che si vanta di pensare solo a tagliare le tasse e giura che non ne metterà mai di nuove, questa parte della delega rappresenterebbe dunque un modo clamoroso quanto coperto di predicare in un modo e razzolare in un altro, qualora non vi fossero abbattimenti di imposta almeno pari alle risorse da recuperare con i nuovi tributi. Converrà dunque lasciare i riflettori ben accesi su questo punto.
Il secondo dettaglio merita ancora più attenzione, almeno su un aspetto: a quale platea di contribuenti verrà chiesto di dare un contributo aggiuntivo per province e città metropolitane? Qui i casi sono due: o è un’imposta autonoma o è una compartecipazione a un tributo nazionale, come sono le attuali addizionali. E qui si nasconde ben bene il solito diavolo, per cui potrebbe andare a finire che ai lavoratori dipendenti con una mano si darà qualcosa e con l’altra si toglierà qualcosa.
Vediamo perché. Come è noto, il governo sta lavorando alla manovra di bilancio per il 2024. Poche risorse e molti obiettivi, ma tutti i ministri sostengono che non si potrà non partire dalla conferma del taglio del cuneo fiscale per i lavoratori fino a 35 mila euro di reddito annuo lordo in vigore fino al 31 dicembre. Intanto ancora non è chiaro se ad essere confermato sarà il taglio dei contributi in vigore nel primo semestre di quest’anno (3 punti fino a 25 mila euro annui lordi e 2 punti fino a 35 mila), anche la parte aggiuntiva in vigore nel secondo semestre (altri 4 punti percentuali in più) o una media tra i due valori. La differenza non è irrilevante per le casse dello Stato: fare tutto costerebbe intorno ai 10/11 miliardi netti (netti, perché se togli i contributi sale il reddito lordo sul quale vengono applicate le aliquote fiscali e dunque l’amministrazione pubblica reincassa sotto forma di tasse una parte delle risorse spese per tagliare il cuneo fiscale).
Naturalmente, oltre ai tributi nazionali, vi sono quelli locali, segnatamente le addizionali Irpef comunali e regionali, cioè i fondi destinati a finanziare le attività delle amministrazioni locali. Chi le paga? I lavoratori dipendenti e i pensionati subiscono un prelievo automatico (vedere il cedolino mensile). I lavoratori autonomi che scelgono la flat tax sono esentati.
Or bene, ecco il dettaglio della delega fiscale che merita (insieme a molti altri) di essere ben illuminato quando saranno presentati i decreti delegati: se il finanziamento di province e città metropolitane sarà previsto dal governo sotto forma di compartecipazione a tributi nazionali, bisognerà verificare che ciò si realizzi indirizzando verso le casse degli enti locali una parte del tributo nazionale già esistente e non un’aggiunta, cioè un’addizionale. Perché? Perché in questo caso si rischia che a pagarla sia solo una parte dei contribuenti, composta sicuramente da dipendenti e pensionati.
Roberto Seghetti