Finisce oggi l’era del reddito di cittadinanza. Da domani la misura simbolo dei Cinquestelle non esisterà più. Con un sms il governo ha interrotto l’erogazione dell’assegno per 169mila nuclei familiari, perché composti da persone occupabili. Per chi non può impegnarsi nel mercato del lavoro, perché con minori o disabili a carico, arriva l’assegno di inclusione.
Senza dubbio il reddito di cittadinanza è stata una delle misure più divisive dell’opinione pubblica. Questo perché il dibattito, in poche occasioni, è partito da un’analisi seria dei numeri e dello strumento. La politicizzazione ha preso il sopravvento, creando una polarizzazione tra chi lo ha difeso come baluardo di dignità, un’ancora di salvezza per le persone contro lo sfruttamento e i lavori sottopagati, e chi, invece, lo ha definito assistenzialismo di stato, l’oppio dei fannulloni, un disincentivo al lavoro. Poi la richiesta di abolire la misura a causa dei cosiddetti furbetti del reddito. Sottrarre delle risorse a chi ne ha una reale necessità è un crimine odioso. Ma non ricordo che nessun politico o opinionista abbia invocato la fine delle pensioni di invalidità per colpa dei falsi ciechi, così come è alquanto bizzarro minacciare una commissione d’inchiesta contro l’ex presidente dell’Inps Tridico, con il sospetto che lui e l’istituto non abbiamo vigilato sulla corretta emissione dell’assegno.
Sono stati gli stessi pentastellati a caricare di grandi aspettative il reddito. Dal balcone di Palazzo Chigi avevano affermato di aver abolito la povertà. Ovviamente così non è stato, anche se la Caritas e Alleanza contro la povertà hanno più volte sottolineato la funzione di salvagente che il reddito ha svolto per le famiglie più in difficoltà, soprattutto durante la pandemia. Ma le grandi aspettative l’hanno affossato in partenza. Altra criticità è stata l’aver accostato misure di contrasto alla povertà con le politiche attive.
Queste sono partite dopo le prime, senza forse aver tenuto conto della diversità e della complessità dei mercati del lavoro regionali, dell’incomunicabilità tra i soggetti coinvolti, del tipo di utenza da ricollocare. Insomma l’intento iniziale del reddito è fallito, e le due anime non hanno mai camminato insieme. Certo chi ha denigrato la misura, arrivando addirittura a dire che il l’assegno poteva fare concorrenza a chi offriva un lavoro – parole espresse anche dal presidente di Confindustria, Carlo Bonomi – non ha mai compreso o voluto comprendere appieno l’universo che ha ruotato attorno a questa misura.
Chi è definito occupabile è, nella maggior parte dei casi, una persona non più giovanissima, con un percorso lavorativo discontinuo e una bassa scolarizzazione. La loro attivazione è un cammino complesso che, per alcuni, parte dalla realizzazione del curriculum. Ad accompagnarli in questo percorso i navigator. Le creature che Mimmo Parisi, di Ostuni, professore di demografia e statistica all’Università statale del Mississippi, voluto fortemente da Di Maio, ha importato da oltreoceano. La battuta più ricorrente tra i critici del reddito è che i navigator, invece di trovare lavoro agli altri, lo hanno trovato per loro stessi. E al di là delle facezie e della poca applicazione che alcuni di loro avranno dimostrato, ben poco si è detto su come hanno lavorato. Il reddito è partito nel marzo del 2019 e i navigator sono divenuti operativi solo nel settembre-ottobre, con uno scarto di alcuni mesi. Nel 2020, poi, la pandemia ha complicato il tutto. Lungamente si è fatto riferimento al bisogno della pubblica amministrazione, e nello specifico dei centri per l’impiego, di avere personale giovane, qualificato e competente. I navigator lo erano, perché il titolo minimo per accedere al concorso era la laurea magistrale e l’età media non superava i 35 anni. Anche l’epoca dei navigator è finita, ben prima di quella del reddito. E quelli che sono rimasti nei Cpi è perché hanno superato altri concorsi.
Ora il governo vuole cambiare passo. L’aiuto va solo a chi ne ha veramente bisogno, mentre gli occupabili non possono poltrire a lungo sul divano. Ma di certo si può dire che il vigore e il rigore messi dall’esecutivo nel ripensare il reddito non sono gli stessi che dovrebbero essere riservati anche ad altre materie, come il fisco.
Alla fine il reddito di cittadinanza subisce quello che è un costume tipico della politica italiana, che è trasversale e non unicamente imputabile a questa maggioranza: smontare una riforma, semplicemente perché vessillo della controparte, senza accertarsi minimamente del suo reale valore.
Tommaso Nutarelli