Esattamente un anno fa (esattamente: nell’arco di tempo tra il 10 e il 15 luglio) l’Italia entrava in quel maledetto tunnel dell’orrore che fu la caduta del governo Draghi. Iniziò il 10 luglio, con Giuseppe Conte che prima chiedeva “un segnale” a Draghi e poi annunciava il no dei 5 Stelle al voto di fiducia sul decreto Aiuti, e finì con le dimissioni del premier: in prima fase respinte da Mattarella, che lo rinviava alle Camere, ma poi subito riconfermate, dopo un passaggio in parlamento che nemmeno i più distratti possono aver dimenticato. Furono dimissioni sdegnate, quelle di Draghi, e sdegnose di ogni tentativo di pacificazione: “ho sempre detto che questo esecutivo sarebbe andato avanti soltanto sul programma sul quale è stata votata la fiducia e su questa maggioranza”. Ciao, addio.
In mezzo, ci furono giorni segnati da una sarabanda di follia: dai vertici di Arcore (preludio, lo si scoprirà poi, al voto contrario di Berlusconi, determinante per la fine del governo), allo sbalordimento del Pd, con Enrico Letta che dichiarava: “il voto contrario dei 5 stelle cambia lo scenario politico, è una scelta che inevitabilmente ci divide”, o con Simona Malpezzi che avvertiva: “così ci giochiamo il Pnrr”’. Allarme confermato dall’allora ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti: “il Pnrr è un’occasione storica e irripetibile, ma richiede un afflato collettivo che in queste ore non c’è”.
Una girandola infinita di dichiarazioni, alcune sincere, altre bugiarde, ma non fa differenza. Il ministro Renato Brunetta che commentava “l’Italia non può fare a meno di Draghi”, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che invocava: “Draghi ci rende orgogliosi di essere italiani””, Romano Prodi che pregava: “mi auguro che Draghi prosegua, abbiamo bisogno di stabilità e continuità”. E ancora, con Matteo Renzi che a sua volta insisteva: “Draghi scarichi i 5 stelle e vada avanti senza i grillini”, o con Paolo Gentiloni che palesava il proprio “preoccupato stupore” per la situazione. Ma anche con Fratelli d’Italia, che per bocca del futuro ministro Lollobrigida tagliava corto: “Draghi sia coerente, la sua maggioranza non c’è più, si dimetta e torniamo al voto”. O con la Lega, che pur stando in maggioranza, subito faceva eco: “ormai la crisi è aperta, prendiamone atto”.
E cosi, in un pugno di giorni, tutto è finito. Con le dimissioni del governo, con lo scioglimento delle Camere, con le elezioni convocate per fine settembre. Ci fu, all’epoca, chi parlò malignamente di una vendetta di Draghi per la fregatura che la politica gli aveva dato sul Quirinale; a prescindere se fosse vero o meno, resta che proprio quella sconfitta, d’altra parte, aveva già impallinato e reso debole l’uomo più forte d’Europa. L’uomo che aveva saputo far fronte alla crisi finanziaria globale più grave dal ‘29, schiantato dalla crisi di identità di un paio di partitelli. Ma la politica italiana, si sa, quando si applica può essere più letale della kriptonite per i super eroi: è un Tristo Mietitore che falcidia senza pietà i suoi uomini migliori. e non è necessario ricordare gli altri illustri caduti, li sanno tutti.
Qualcuno potrebbe chiedersi: perché mai ricordare, oggi, questi eventi. Già, perché. Per esempio, perché oggi sappiamo quanto quegli allarmi sulla sorte del Pnrr fossero sensati: oggi che lo stiamo perdendo. Perché il paese, dopo appena dodici mesi, chiaramente non ha più una bussola, un indirizzo. Perché stiamo scendendo rapidamente la scala della stima internazionale che la presenza di Draghi ci aveva consentito di salire. Perché il primo “killer” di Draghi, Giuseppe Conte, oggi è nuovamente alleato del Pd, e pronto a nuove mirabolanti imprese politiche. O, sempre per esempio, perché oggi i temi al centro della discussione nel paese sono le vicende del ministro Santanchè, del collega dello Sport Abodi, del sottosegretario alla Giustizia Delmastro, del presidente del Senato La Russa, e di diversi altri che certamente avrò dimenticato. E infine, perché la nostalgia forse non è più quella di un tempo, per citare un famoso libro, ma pure la speranza di essere un paese normale, ormai, si direbbe tramontata. (Ed è passato solo un anno).
Nunzia Penelope