In queste settimane sono usciti sulla stampa molti articoli sul salario minimo. Il tono di questi oscilla tra l’analisi politica, sociologica e quella più strettamente tecnica. Credo che una lettura unicamente politica non renda il giusto merito alla discussione. L’opposizione tra una destra sovranista che non sente le difficoltà degli italiani e un polo riformista e di sinistra che spinge per tutelare i salari erosi dall’inflazione non dà giustizia al tema del salario minimo. Nell’editoriale di domenica 9 luglio Il salario minimo non piace ai sovranisti il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, ricorda tutta di piaghe della nostra società. I poveri in aumento, come purtroppo la Caritas certifica, i giovani che, per timore della povertà, abbandonano gli studi e si gettano nel mercato del lavoro, finendo nella tela criminale di datori di lavoro poco raccomandabili, con paghe da fame. Il covid ha dato poi una spinta incredibile all’aumento delle diseguaglianze, delle precarietà e della frammentazione del mercato del lavoro.
L’analisi di Molinari pecca quando parla del mondo dei rider. La vicenda dei rider scoppia mediaticamente nel 2018 con l’allora ministro del Lavoro e del Mise, Luigi Di Maio. I tavoli con sindacati sono molti ma poco fruttosi. Il confronto con le piattaforme è pressoché assente. E’ vero, l’universo del delivery, così come quello dell’intera gig economy, molto spesso è caratterizzato da una riduzione all’osso delle tutele e da retribuzioni incapaci di garantire una vita dignitosa. Ma la strada che sindacati di categoria hanno più volte indicato come quella giusta per tutelare il lavoro è stata quella di riportare i rider nel contratto della logistica e non semplicemente l’individuazione di una soglia minima oraria stabilita per legge. Molinari cita ancora il caso della Florida, che nell’Election Day del 2020 decise di aumentare la retribuzione base da 8,5 dollari l’ora a 15 dollari entro il 2026, o il fatto che l’Italia è tra i sei paesi dell’Unione europea a non avere un salario minimo. Il punto è che negli Stati Uniti non c’è un sistema di contrattazione collettiva esteso come il nostro, si ricorre molto a individuale, e in parte la stessa cosa avviene in altri stati europei.
Quello che ho potuto notare nei diversi articoli a sostegno dell’introduzione del salario minimo è che troppo spesso ci si dimentica della presenza e del valore del modello contrattuale e del sindacato italiano. Certamente se il dibattito intorno al salario minimo è così vivo vuol dire che questo modello non sempre ha funzionato alla perfezione. I bassi salari e i contratti pirata sono una realtà. Sempre sulle colonne di Repubblica del 7 luglio Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps, nell’articolo Perché serve il salario minimo descrive l’indebolimento della contrattazione collettiva, il poco appeal dei contratti nazionali e la concorrenza che devono subire da quelli in dumping. Tridico lega la presenza del salario minimo a un possibile abbassamento delle diseguaglianze, con e benefici per l’innalzamento delle pensioni minime e per il contrasto al gender gap. La mia domanda è se tutto queste cose non possano essere raggiunte attraverso il rafforzamento della contrattazione invece che con un’unica misura che rischia di rimanere una cattedrale nel deserto.
Sulla possibilità, prospettata da molti, che il salario minimo possa essere un modo per contrastare il lavoro nero, l’allarme, in senso contrario, arriva dalla Cgia di Mestre che vede in questa misura un detonatore per far crescere ancora quello irregolare. Il ragionamento della Cgia è che con un aumento della soglia salariale minima molti datori potrebbero ridurre il lavoro regolare ai propri dipendenti, per fargli poi svolgere il resto delle mansioni non regolarmente.
Mi pare, dunque, un’incredibile miopia pensare che il salario minimo sia l’antibiotico per tutti i mali. Una miopia che ritengo ancora più grave per il Pd di Elly Schlein, che fin dall’inizio del suo mandato si è spesa per rinsaldare il rapporto con il lavoro e con il sindacato, soprattutto con la Cgil.
Proprio il segretario Landini, in un’intervista a Valentina del Conte su Repubblica, vede il salario minimo all’interno di un disegno più ampio. Il percorso indicato dal numero uno della confederazione di Corso d’Italia è arrivare a una legge sulla rappresentanza per dare validità erga omnes ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. Nei contratti collettivi, spiega Landini, non c’è solo il trattamento economico minimo, ma molto di più come la tredicesima, la malattia e la maternità, il welfare. L’obiettivo è quello di ampliare i diritti a tutti i lavoratori. Il governo dovrebbe intervenire, per Landini, sulla detassazione degli aumenti dei rinnovi.
Se, come dicono le opposizioni, il salario minimo non è in antagonismo con la contrattazione, sulla base di quale motivo ci si dovrebbe sedere ancora intorno a un tavolo e discutere? Perché alcuni comparti dovrebbero mantenere retribuzioni orarie più alte quando c’è la possibilità di abbassarle in via del tutto legale? In altre parole la contrattazione, quella alta e di qualità, avrebbe ancora il suo fascino? E, ancora, con un salario deciso dal legislatore, avrebbe senso invocare una legge sulla rappresentanza per tutelare i contratti firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative?
Alla fine siamo sicuri che il salario minimo sia la panacea di tutti i mali?
Tommaso Nutarelli