Su una cosa un po’ tutti nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali sono d’accordo, i salari italiani sono troppo bassi, devono crescere, specie a fronte di un’inflazione che cala, ma troppo lentamente. Il problema è come intervenire, con quali strumenti. Che sono diversi e non necessariamente alternativi tra loro. Sicuramente tutti concordano sull’opportunità di abbassare il cuneo fiscale e contributivo, decisamente più alto che nei paesi industrializzati nostri concorrenti. Lo chiedono i sindacati, gli imprenditori sono d’accordo, il governo si è incamminato in questa direzione, confermando e allargando l’intervento che aveva già avviato il governo di Mario Draghi. L’intenzione sembra quella di intervenire con provvedimenti a pioggia, senza distinguere troppo sui loro effetti. Non a caso Daniela Santanché, ministra (nella bufera) del turismo, ha proposto di defiscalizzare i contributi o parte dei contributi che gravano sul lavoro dei festivi e di notte nelle imprese del turismo, nonostante si sia in presenza di un vero boom del settore.
Decontribuzione importante, quindi, ma non sufficiente. Anche la contrattazione deve intervenire e lo sta facendo con rinnovi di contratti nazionali che hanno portato aumenti sostanziosi dei salari. È dei giorni scorsi la firma del contratto del settore legno e arredo che ha deciso una crescita importante delle retribuzioni, tanto da far storcere il naso a Confindustria, impaurita dal diffondersi di una politica di manica larga in campo salariale. Ancora, il contratto dei metalmeccanici ha sorpreso tutti (forse anche chi lo aveva sottoscritto) quando, grazie al meccanismo di aggiustamento salariale ex post scelto al momento del rinnovo, si è arrivati a un aumento salariale che ha recuperato quasi integralmente l’effetto dell’inflazione. Nell’autunno scorso, del resto, già tutto il settore della chimica ed energia aveva messo a segno rinnovi contrattuali assai consistenti, con aumenti in grado quanto meno di fronteggiare l’inflazione. E ora tocca ai bancari, che hanno avanzato per il prossimo rinnovo contrattuale richieste molto elevate e hanno già incamerato il sì di Intesa San Paolo, la più grande banca italiana. Ci ha pensato Carlo Messina, ad di questo istituto, che a fronte delle richieste sindacali ha affermato che non se la sarebbe sentita di respingerle, considerando l’entità degli utili accumulati dalla sua banca.
L’uscita di Carlo Messina non è piaciuta all’Abi e alle altre banche, che hanno protestato rinviando ogni decisione alla trattativa, alla quale peraltro Intesa partecipa solo come invitata avendo tolto il mandato di rappresentanza all’Associazione bancaria. Ma Messina ha introdotto nel dibattito in corso un concetto nuovo, molto importante, quello del comportamento che devono tenere le grandi aziende nella rincorsa salariale in atto. È stato il direttore de Il Foglio Claudio Cerasa, a cavalcare questo argomento. Affermando sulle colonne del suo quotidiano che le grandi aziende hanno il dovere di agire con tempestività e generosità per aumentare i salari dei loro lavoratori. Non aspettate i contratti, ha scritto, l’economia tira, le prospettive sono alte, l’urgenza di aumentare i salari indiscussa, alzate le buste paga.
È l’eterna contrapposizione tra accordi aziendali e accordi nazionali che viene riproposta ancora una volta. Polemiche che sembravano superate con l’accettazione del doppio canale, confermato anche dall’ultimo grande accordo tra Confindustria e confederazioni sindacali, il Patto della fabbrica del 2018, e che invece si sono riaccese in questa occasione. A controprova della maggiore validità del contratto aziendale si fa ricorso all’esperienza fatta da Fiat nel 2011, quando uscì da Confindustria per avere un proprio contratto, più consono alle esigenze dell’azienda. Sergio Marchionne volle innovare la politica contrattuale e l’organizzazione del lavoro nelle sue fabbriche, il contratto nazionale glielo impediva, scelse il contratto aziendale.
Una scelta felice, dicono gli estimatori, perché da allora si sono fatti in Fiat, poi in Fca, adesso in Stellantis, ottimi contratti, anche molto generosi. Tutto vero, tutto confermato. L’ultimo contratto Stellantis è stato riconosciuto più che valido, generoso nella determinazione degli aumenti salariali, innovativo nella parte normativa. Ma non può essere questo un modello da applicare a tutte le imprese indistintamente. Non fosse che perché l’Italia si caratterizza per le dimensioni delle sue aziende, tutte, o quanto meno la gran parte, piccole e piccolissime, certo non tali da potersi impegnare in difficili trattative contrattuali fuori dall’ombrello dei contratti nazionali. Le grandi aziende possono certamente decidere di dare di più ai propri lavoratori, per ottenere vantaggi collaterali, ma la dinamica salariale non può essere lasciata, per ben più della metà dei casi, al Far West o alla bontà di imprenditori illuminati, che forse non scarseggiano, ma certo non rappresentano la categoria.
La ragione non sta mai da una sola parte. È vero che le grandi imprese possono rappresentare illuminati esempi ed è altrettanto vero che la dinamica salariale deve essere fermamente guidata da una politica contrattuale non lasciata al caso. Forse la soluzione migliore è rifarsi al passato, a quegli anni Settanta e Ottanta, quando la contrattazione aziendale serviva alle grandi aziende per fare delle sperimentazioni, per innovare, con coraggio, procedure forse troppo rigide. Le grandi aziende compivano passi in avanti e i contratti nazionali, alla luce dei risultati ottenuti, facevano proprie quelle esperienze estendendole a tutta la categoria. Un sistema che funzionava.
Massimo Mascini