“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (art.1) e “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art.4). Inoltre l’art. 35 prevede che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, e pertanto il lavoro penitenziario rientra nell’applicazione del disposto costituzionale. La legge contenente le norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà (l. 354 del 26 luglio 1975) stabilisce che il lavoro costituisce lo strumento principale del trattamento penitenziario avente come fine ultimo la rieducazione e la risocializzazione del condannato e che “ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato [sia] assicurato il lavoro”, che non abbia mai carattere afflittivo e che sia remunerato.
È su questa precisa direzione che muove l’accordo interistituzionale siglato tra Ministero della Giustizia e CNEL per promuovere, con attività concrete, il lavoro e la formazione quale veicoli di reinserimento sociale per le persone private della libertà. L’intesa, siglata dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dal Presidente del CNEL, Renato Brunetta, promuove “una collaborazione orientata a diffondere le condizioni per un lavoro penitenziario formativo e professionalizzante, finalizzato all’utilizzo proficuo del tempo della reclusione e all’accrescimento delle competenze personali dei soggetti reclusi”, si legge nel testo dell’accordo.
Quanto è di più interessante rilevare, sottolineato anche nelle premesse dell’accordo e più volte ribadito dallo stesso Nordio in aula, è che il lavoro penitenziario abbatterebbe il rischio di recidiva del detenuto una volta riacquisita la libertà, motivo per cui, nell’accordo come nel disposto di legge dell’ordinamento penitenziario, è assicurato anche un percorso di orientamento nel mercato del lavoro al termine della pena. Inoltre, si prevede “l’incremento dei percorsi di formazione anche universitaria e di riqualificazione professionale a favore dei detenuti e internati”, nonché l’istituzione, al fine di monitorare il perseguimento degli obiettivi di cui all’Accordo, di “una apposita Cabina di regia – presieduta dal Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia con delega per il trattamento dei detenuti, Andrea Ostellari -, la quale farà pervenire periodicamente al Ministro e al Presidente del CNEL i risultati dell’attività svolta per la preparazione e l’adozione delle conseguenti iniziative”.
Stante le nobili intenzioni dell’accordo, peraltro non particolarmente innovative visto che buona parte dei contenuti sono già presenti nel disposto della legge 354 e del D.P.R. 230/2000 cosiddetto “regolamento penitenziario”, viene innanzitutto da domandarsi se tutto ciò sia (già) possibile soprattutto alla luce del tasso di sovraffollamento delle carceri italiane, che ci è costato più di un richiamo da parte della Commissione Europa. Secondo il XIX Rapporto Antigone sui dati del ministero della Giustizia, a fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, i presenti nelle nostre carceri al 30 aprile erano 56.674, vale a dire 5.425 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, con il tasso medio di sovraffollamento che tocca quota 119%. Dati che incidono sul tasso di occupazione della popolazione carceraria. Sempre secondo il Rapporto, al 31 dicembre 2022 i detenuti lavoratori erano 19.817, pari al 35,2% dei presenti. Tra questi vengono conteggiati anche coloro che, con turni a rotazione, lavorano poche ore al mese. Circa due detenuti su tre non avevano accesso ad alcuna forma di lavoro. La stragrande maggioranza dei detenuti lavoratori, ovvero l’86,8%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, impegnata in piccole attività interne poco spendibili nel mondo lavorativo. Solo il 4,6% della popolazione detenuta lavora alle dipendenze di datori di lavoro esterni. Quanto al capitolo della formazione professionale, risulta quasi assente nel panorama penitenziario italiano. Alla fine del 2022 i detenuti coinvolti in corsi di formazione professionale erano solo il 4% dei presenti.
Dati quindi che riflettono la grande difficoltà di applicazione dei disposti costituzionali, di “mondare il peccato” attraverso il lavoro – una visione che ha echi delle dottrine protestanti – e offrire il reinserimento sociale per contenere il rischio di recidive. Il tutto in prospettiva di un mercato del lavoro già saturo e strutturalmente obsoleto che dovrebbe essere pronto ad accogliere non solo nuove unità lavorative, ma nuove unità lavorative per di più con la fedina penale sporca.
L’accordo fresco di sigla offre l’opportunità di ripensare il sistema penitenziario e la determinazione del reato, nonché le conseguenti misure detentive. Un percorso lungo e accidentato che non deve limitarsi alle buone intenzioni, ma aprirsi davvero all’interistituzionalità di cui si fregia nelle premesse.
Elettra Raffaela Melucci