Lo sciopero nazionale del prossimo 7 luglio, promosso da FIM-FIOM-UILM (scusate se uso i trattini, ma resto un vecchio nostalgico) ha il grande merito di porre al centro del dibattito politico e anche sindacale una questione fondamentale: Quale futuro per l’industria manifatturiera italiana.
Il campanello d’allarme della recente e ripetuta contrazione della produzione industriale nazionale, indicato dall’Istat non può e non deve essere sottovalutato.
Non si tratta solo delle conseguenze di una fase ( si spera temporanea) di contrazione dei tradizionali mercati di sbocco della metalmeccanica italiana (in primis quello tedesco), si tratta di un punto di svolta decisivo, a cui quel comparto rischia di arrivare impreparato e senza il necessario sostegno.
Questo aspetto viene ben colto dalle motivazioni dello sciopero a partire dalla gestione della fase di transizione ambientale, per arrivare alla contrazione dell’occupazione in alcuni settori come l’Automotive e alle irrisolte crisi aziendali che da tempo si trascinano nei corridori del Ministero dell’Industria (sic!).
Tuttavia mi permetto di indicare un altro obiettivo contro cui lo sciopero e più in generale la battaglia dei metalmeccanici deve cimentarsi: quello della cultura antindustriale che in questo Paese ha trovato non pochi “cattivi maestri”.
Dai teorici della deindustrializzazione, che ha visto fior di sociologi sostenere la tesi che ormai eravamo nella società postindustriale e (vieppiù) in Italia varrebbe la pena di occuparsi solo del turismo (in questo i recenti provvedimenti governativi non hanno perso tempo), ai cultori della fine della “centralità operaia” come se questa si dovesse immedesimare unicamente con le sfuocate fotografie dei cortei degli anni ’70, e non dovesse invece fare i conti con le trasformazioni profonde, che sono avvenute e stanno avvenendo senza nulla togliere (anzi) alla centralità del lavoro che cambia, soprattutto nell’industria di trasformazione.
Ma si sa. Meglio una pigra analisi, magari sorretta da qualche slogan sulla “fine del lavoro”…degli altri ovviamente; piuttosto che una ricerca faticosa e meticolosa di come l’industria metalmeccanica italiana possa mantenere il ruolo di leadership che ha saputo costruire, non solo in Europa, ma anche con punte di eccellenza nel mercato globale (la cui crisi ha determinato, va detto con chiarezza, l’inizio della crisi del settore) alla faccia dei teorici ostili alla globalizzazione.
Di questi temi si discute poco e con poca competenza e attenzione, ben venga quindi lo sciopero dei metalmeccanici, ben venga il conflitto a dare la sveglia ad un ceto politico disattento e qualche volta addirittura ostile a queste tematiche.
Verrebbe voglia di rispolverare il “patto tra i produttori” contro il degrado industriale di questo Paese, ma questo sarebbe davvero un altro audace obiettivo che forse non interessa più nemmeno ad una certa sinistra occupata a demonizzare l’Ordoliberismo (senza neppure conoscerne la storia) piuttosto che a interrogarsi su che tipo di società si vuole contribuire a costruire per i prossimi 20 anni.
Luigi Marelli