L’Avvenire, in questi giorni, ha dedicato un editoriale alle “tante crisi di cui il mondo abbonda, alcune delle quali giacciono nel dimenticatoio mediatico”. L’elenco sgomenta. Ecco “lo Yemen, il Sudan in piena guerra civile, l’Iran, Taiwan, la grande polveriera mediorientale con il ritorno in auge del siriano Bashar al Assad e l’instabilità politica di Israele coinvolto in una sanguinosa intifada fra Hamas, la Jihad e l’intolleranza dell’estremismo dei coloni”.
Ancora: “La Wagner che in Africa ha messo a punto una versione neocolonialista del land grabbing (la corsa forsennata ad accaparrarsi lotti di territorio sfruttabile per coltivazione e risorse minerarie un tempo appannaggio del solo soft power cinese), il conflitto in Etiopia nella regione del Tigrai, le insurrezioni islamiste in Burkina Faso, Mali e Niger con il crescere impetuoso dell’influenza jihadista, la Libia che non riesce a darsi un’elezione democratica e oscilla tra l’evanescente governo di Tripoli, i manutengoli dei mercenari russi e la satrapia di Khalifa Haftar; e poi Haiti, terra senza legge e di immensi disumani arbitrii, il Myanmar, l’Afghanistan, il Pakistan”.
Il quotidiano dei vescovi conta una settantina di aree a conflittualità variabile, comprese le situazioni difficilmente classificabili come in Nicaragua, in Somalia, in Venezuela, e cinquantanove quelle dove si combatte giorno e notte. In testa l’invasione dell’Ucraina, sorta di buco nero che sta inghiottendo tutte le altre emergenze belliche.
Volodymyr Zelensky, accolto come una madonna pellegrina nei suoi tour, guida senza alcun tentennamento, la caccia all’orso russo. “Ormai in permanente tenuta similmaoista, versione felpa militarizzata, che indossa con la disinvoltura di una seconda pelle è sceso tra gli alleati recitando la parte del corrucciato, ieratico eremita guerriero, che segue strategie in parte occulte ma comunque formidabili”, ha scritto su “La Stampa” Domenico Quirico. Eroe o avventuriero? A suo favore, di certo, la scelta di restare al proprio posto fin dai primi giorni dell’attacco, quando tutto sembrava perduto. Potrebbe passare alla storia come l’uomo capace, con il massiccio aiuto dell’Occidente, di mettere in ginocchio il nuovo zar.
La linea l’ha tracciata: nessun armistizio è possibile prima della vittoria finale (non è chiaro se intende la cacciata totale del nemico o il crollo stesso del regime moscovita), Putin deve essere portato davanti ad un tribunale e processato, solo Kiev è legittimata a decidere quando va cessato il fuoco. Sull’altro fronte, terrifiche minacce accompagnano i bombardamenti. La scellerata e tenebrosa “operazione speciale” non si arresta. La popolazione continua a soffrire e a morire. I fabbricanti di armi gongolano. L’immane ricostruzione fa già gola.
In Italia, dove fino al 24 febbraio dell’anno scorso il brutale capo del Cremlino, sebbene fossero conclamati i suoi crimini, veniva idolatrato da Silvio Berlusconi e da Matteo Salvini, due dei tre pilastri dell’attuale governo, qualsiasi ragionamento articolato su cause e responsabilità, Nato compresa, viene tacciato di intesa con il nemico. Il Papa, pur inascoltato, ha comunque affidato al cardinale Matteo Zuppi il compito quasi impossibile di tessere una mediazione. “Chiedere la pace non è evitare di schierarsi”, puntualizza il presidente della Cei.
Intanto al G7 di Hiroshima, offuscato monumento all’orrore della bomba atomica, i Grandi hanno deciso l’invio di aerei F16 e di altre forniture militari. Come andrà a finire? Il dittatore russo appare sempre più isolato. Si arrenderà o, come il topo messo nell’angolo di cui ha parlato nelle sue memorie, combatterà senza esclusioni di colpi, armi nucleari comprese? Riuscirà una congiura a spodestarlo? È ipotizzabile una rivolta di popolo nonostante la feroce repressione interna? Stiamo danzando, per dirla con Fuster Dulles, sull’orlo dell’abisso.
E, una volta terminata questa tragedia, che ne sarà degli altri sessantanove conflitti?
“Un giorno – oh, ci è dolce sperarlo! – il mondo intero sarà civilizzato, su tutti i punti dell’umana dimora splenderà il faro di luce, avverandosi quindi il magnifico sogno dell’intelligenza: avere, cioè, per patria il mondo, l’umanità per nazione”.
Così dava corpo ai propri fantastici desideri Victor Hugo concludendo la prefazione del dramma “I burgravi”. Era il 25 marzo 1843. Sono passati 180 anni. Il sogno continua.
Marco Cianca