Il decreto del governo che ha esteso a tutto il 2023 il taglio del cuneo fiscale, ampliandone la portata fino a 7 punti percentuali per le retribuzioni fino a 35 mila euro l’anno, ha riportato in primo piano il problema dei salari, cresciuti troppo poco in Italia e il cui potere di acquisto è oggi anche falcidiato dall’inflazione.
Tuttavia, il dibattito e le informazioni sono stati concentrati, trattandosi del taglio del cuneo fiscale, sul tema del salario al netto delle imposte e dei contributi. In Italia, però, il problema è molto più ampio e infatti riguarda in primo luogo il salario lordo e solo in seconda battuta il netto.
Per rendersene conto basta guardare con attenzione le statistiche dell’Ocse1. A prezzi costanti (misurati in dollari sul 2021) e parità di potere di acquisto, le retribuzioni medie italiane degli occupati a tempo indeterminato sono passate dai 40.575 dollari nel 2000 a 40.767 nel 2021. Negli Usa, tanto per fare qualche esempio, nello stesso arco di tempo, si è passati da 57.499 a 74.738 dollari. In Germania da 47.631 a 56.040 dollari. In Francia da 40.597 a 49.313. In Danimarca da 47.995 a 61.331.
Certo, bisogna tener in conto che da noi la produttività cresce meno che in altri paesi, ma intanto cresce e in ogni caso, come è noto, il dato della produttività non dipende solo dal lavoro delle persone: è collegato anche alla capacità organizzativa delle imprese, all’efficienza del sistema paese, agli investimenti in innovazione tecnologica, ecc. Senza scordare che il sistema industriale italiano, il secondo per dimensioni in Europa, resta comunque in termini di fatturato e di profitti in una buona posizione nel confronto internazionale.
Insomma, il primo e fondamentale tema dei salari italiani riguarda i salari lordi, il rinnovo dei contratti, la dimensione degli aumenti sia sul piano generale delle diverse categorie, sia degli accordi di secondo livello. È un dato che nel dibattito pubblico non va dimenticato.
In secondo luogo vi è il tema del cuneo fiscale, cioè della differenza tra quanto paga il datore di lavoro e quanto incassa effettivamente il dipendente, dopo il prelievo alla fonte di contributi per pensioni e assistenza e di tasse nazionali (Irpef) e locali (sovrimposta ragionale e comunale). La differenza è notevole, ma può essere aggredita in diversi modi: riducendo le imposte, come hanno fatto i governi Prodi II e, sia pure con un intervento che tecnicamente poteva essere definito una spesa più che un taglio di entrate, Renzi. Si può intervenire tagliando i contributi, come ha fatto il governo Meloni e prima ancora Draghi. Si può intervenire riducendo entrambe le voci di prelievo.
Nel primo caso, il taglio delle imposte (che si traduce in una riduzione delle entrate per lo Stato) viene coperto o riducendo le spese pubbliche o aumentando altre imposte, cioè viene messo a carico dell’interesse generale, della generalità dei cittadini. Inoltre, ciò che resta netto in busta paga al lavoratore è esattamente quanto è stato tagliato, perché in busta paga prima si trattengono i contributi e poi, su quel che resta, vengono calcolate le imposte.
Nel caso del taglio dei contributi, in busta paga cresce la quota di reddito da sottoporre a tassazione nazionale e locale e quindi il taglio del cuneo fiscale in realtà si riduce, perché non è al netto, ma è al lordo del prelievo fiscale aggiuntivo. Anche in questo caso l’intervento viene messo a carico della fiscalità generale, con una piccola ma non secondaria avvertenza: qualora il taglio dei contributi fosse reso strutturale (quello del governo Meloni per ora è limitato al 2023) resterà a carico della fiscalità generale la copertura dei contributi mancanti per tutto il futuro, come avverrebbe nel caso di una riduzione strutturale delle tasse. Ma qui stiamo parlando di un sistema, quello previdenziale, che per via del calo delle nascite in futuro presenterà già di per sé uno squilibrio crescente tra entrate per contributi e spese per pensioni.
Infine, va detto che se il governo Meloni volesse rendere strutturale il taglio dei contributi deciso con l’ultimo decreto, la spesa, al netto del rientro nelle casse dello Stato dell’Irpef aggiuntivo sulle buste paga, ammonterebbe a circa 10 miliardi di euro l’anno. Il problema è che la riforma fiscale annunciata sempre dal governo Meloni per le stesse categorie di lavoratori (redditi annui fino a 35 mila euro lordi) costerebbe, euro più euro meno, una decina di miliardi. E, dunque, se consideriamo lo stato del bilancio pubblico, il livello del debito pubblico e anche le tensioni sui tassi di interesse, è già improbabile che si riesca a farne per intero una sola. Farle entrambe appare sicuramente impossibile.
1 https://stats.oecd.org/viewhtml.aspx?datasetcode=AV_AN_WAGE&lang=en
Roberto Seghetti