Ho molto apprezzato l’articolo di Nunzia Penelope “La sostituzione etnica, i figli per la Patria, e il mondo come va davvero”. Il vice direttore de Il Diario del lavoro, commentando lo sgangherato dibattito sull’immigrazione che teneva banco nei giorni scorsi prima che la politica e i media si occupassero d’altro (è sempre più evidente che per risolvere i problemi basta non parlarne più in televisione), ha avuto il merito di non rincorrere alcuna delle frasi infelici che si sono lette o udite, ma di sottolineare in particolare i problemi di policy, quando si basano su analisi sbagliate. Pertanto più che occuparsi della “sostituzione etnica” temuta dal ministro/cognato, Penelope si è soffermata sulle considerazioni di Giorgia Meloni, in quanto presidente del Consiglio di un esecutivo che deve adottare i provvedimenti necessari a gestire il dossier immigrazione. “Meloni ha detto – ha scritto Penelope – che in Italia sono troppo poche le donne che lavorano, esattamente come troppo poche fanno figli, ma di voler rimediare a queste lacune, puntando a ottenere, attraverso misure di sostegno adeguate, sia una maggiore presenza femminile al lavoro, sia un aumento del tasso fecondità nel nostro paese, oggi tra i più bassi d’Europa”. “Cosa c’è di strano o sbagliato?”, si è chiesta Penelope. E da parte sua non vi ha trovato nulla. Infatti Meloni sbaglia quando sostiene che il lavoro delle donne e la conseguente ripresa della natalità rappresentano la vera soluzione del declino demografico e non l’immigrazione. In teoria il ragionamento ha una sua validità, ma è privo di un fondamento reale. In primo luogo perché è molto difficile rovesciare un trend nichilista che dura da troppo tempo, che ha uno spessore prima culturale che economico e che – anche confidando nel miracolo delle cicogne – occorrerebbero decenni per invertire i processi in atto, mentre la crisi demografica ha già prodotto effetti che ormai hanno assunto un carattere strutturale. Una ricerca della Fondazione Di Vittorio (così giochiamo in casa della Cgil) sostiene che nei prossimi vent’anni è prevista una drastica riduzione della popolazione residente di oltre -3 milioni rispetto ad oggi, come risultato di una diminuzione dei più giovani (-903 mila) e delle persone in età da lavoro (-6,9 milioni) e di un aumento degli anziani (+4,8 milioni)”. A questo proposito sarebbe il caso di chiedere a Maurizio Landini e ai colleghi delle altre confederazioni come possono ritenere sostenibile una sostanziale riduzione dell’età di pensionamento a favore delle generazioni (numerose) dei baby boomers mettendole a carico per molti anni alle coorti degli attivi che, al di là di ogni altra considerazione sul reddito e l’occupazione, sono state falcidiate alla nascita. Nel 1950, in Italia, la popolazione tra gli 0 e i 19 anni rappresentava il 35,4 %, mentre oggi sono solo il 17,5%. Il forte calo è avvenuto tra il 1980 e il 1995: in quei 15 anni gli under 19 sono passati dal 30 al 21%. Nella fascia tra i 20 e i 30 anni, si è passati dal 35% della popolazione al 21%, con un calo via via maggiore a partire dal 1995 in poi. La fascia tra i 40 e i 59 anni era il 22% nel 1950, ora è il 31%, con un aumento pressoché costante. Il crollo delle nascite al di sotto delle 400mila unità è, pertanto, la conseguenza di quanto è avvenuto nelle coorti precedenti, anch’esse meno numerose e di conseguenza meno prolifiche. Si è determina cioè una corsa al ribasso, scandita da un dato naturale del quale tutte le diavolerie scientifiche non sono riuscite a fare a meno: il tasso di fecondità della donna, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni. In questa fascia di popolazione, le donne italiane sono sempre meno numerose: da un lato, le cosiddette baby boomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) stanno uscendo dalla fase riproduttiva (o si stanno avviando a concluderla); dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby-bust, ovvero la fase già ricordata di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Al 1° gennaio 2019 le donne residenti in Italia tra 15 e 29 anni erano poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni. Rispetto al 2008 le donne tra i 15 e i 49 anni sono oltre un milione in meno. Un minore numero di donne in età feconda (anche in una teorica ipotesi di fecondità costante) comporta, in assenza di variazioni, meno nascite. Questo fattore è alla base di circa il 67% della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2018. In poche parole, si sta spezzando la filiera della riproduzione sociale. Può non piacere, ma quella dell’immigrazione costituisce – pur con tutte le sue tremende difficoltà – la strada meno complicata per contenere, almeno in parte, gli squilibri demografici. Questa considerazione – a cui sono arrivati tutti i demografi – è la prova della situazione drammatica che stiamo vivendo; ben conosciamo, infatti, quante siano le controindicazioni politiche e sociali che sollevano questi processi, che pure sono inevitabili. Gli sbarchi dei clandestini non sono un’invasione, ma neppure la soluzione del problema. L’accoglienza è la condizione “necessaria”, ma quella “sufficiente” è l’integrazione. E tra queste due fasi vi è un mondo ancora inesplorato. Personalmente credo che l’immigrazione sia una questione irrisolvibile e che le politiche di contrasto siano palliativi destinati comunque al fallimento. Penelope descrive bene come quello delle migrazioni sia un fenomeno globale, come tra i due emisferi del pianeta esista un sistema di vasi comunicanti che porta le popolazioni giovani, prolifiche e povere del Sud a spostarsi al Nord dove prevalgono gli anziani benestanti e in numero inadeguato per il complesso delle esigenze del loro stesso vivere civile, economico e sociale. Ci ostiniamo a raccontare a noi stessi che l’Italia con i suoi 7mila Km di coste è la principale vittima dell’invasione e che viene lasciata sola dai cattivi ed egoisti partner europei (i Paesi di Visegrad stanno sostenendo uno sforzo enorme di solidarietà nei confronti dei profughi ucraini senza impuntarsi per una loro redistribuzione). Penelope accenna ai problemi che si pongono su scala planetaria. Nei giorni scorsi Il Foglio ha pubblicato un piccolo saggio (“L’Ucraina del North Dakota”) di Marco Bardazzi in cui veniva descritta la situazione dell’immigrazione negli Usa che non si limita soltanto ai flussi costanti e crescenti dal Sud America (2milioni di clandestini nel 2022), ma da ogni parte del mondo, tra cui 670mila persone provenienti da 16 paesi che si sono viste prorogare il TPS, un permesso che consente di vivere e lavorare. Infatti 450mila adulti entrati nel Paese tra il 2021 e il 2022 sono già stati assorbiti dal mercato del lavoro. E’ il tema che spacca il Paese, su cui Trump aveva costruito le sue fortune elettorali e che insidiano la rielezione di Joe Biden, il quale tuttavia non ha rinunciato ad adottare iniziative che alleggeriscono la pressione sul lato Sud con programmi di accoglienza per i rifugiati e con l’utilizzo di una app che permette di combattere i trafficanti clandestini e cerca di regolare i flussi.
Giuliano Cazzola