Ieri l’ennesima alluvione, con danni e vittime, questa volta in Romagna. Bisognerebbe saper distinguere tra un evento calamitoso imprevedibile e un evento che invece è quasi annunciato almeno due volte l’anno. Gli eventi sismici non sono prevedibili. Le alluvioni, le esondazioni, le frane fanno parte della seconda categoria: quella del prevedibile. Non è un un pessimismo soggettivo, è l’osservazione delle serie storiche pluridecennali dei disastri ad argomentarlo: a partire da quello del Vajont del ’63 e dall’alluvione di Firenze del ’66, fino alle più recenti esondazioni e frane. Per gli eventi sismici si può e si dovrebbe agire sulle strutture e infrastrutture edili per ridurre gli effetti dannosi delle scosse alle cose e alle persone. Siamo in un Paese a rischio sismico, non è accettabile che si costruisca ovunque senza tecnologie antisismiche. I dissesti idrogeologici richiedono invece interventi preventivi di manutenzione del territorio se si vuole (due volte ogni anno) evitare che basti una pioggia intensa per produrre un disastro con danni e vittime. Perché non si fa?
Sembra incredibile da raccontare ma la politica, tutta la politica purtroppo, sembra preferire la logica dell’intervento in emergenza piuttosto che una prevenzione programmata e pluriennale, come dovrebbe essere. Per non dire della decennale cementificazione diffusa e della impermeabilizzazione del terreno dovute a una crescita edilizia insostenibile che fungono da moltiplicatori dei rischi anche in costanza degli andamenti meteorologici: non si agisce per prevenire i rischi, anzi, li si amplifica. A questa cronica patologia politico-governativa diffusa si è aggiunto da qualche tempo un grande alibi collettivo: il cambiamento climatico. I disastri idrogeologici non sono più dovuti alla scarsità delle manutenzioni, alla miopia edilizia e all’irresponsabilità di qualcuno ma all’intensità anomala delle piogge e quindi non ci sono più “responsabili” degli eventi calamitosi, diventando anche essi imprevedibili.
Ho personalmente scoperto durante la piena dell’ottobre 2000 (da sindaco della città di Ferrara) che il corso del Po non è scavato come dovrebbe essere, che la sabbia che si accumula naturalmente nei rami del Delta, non rimossa da anni, rende più lento il deflusso dell’acqua del fiume in Adriatico quando ci sono forti piogge a monte, e persino (vedere per credere) che l’argine veneto è ovunque più basso di almeno un metro rispetto a quello emiliano. Non mi risulta che negli ultimi 23 anni le cose siano cambiate. Con tutto che il Po è “gestito” da numerosi enti pubblici tra cui l’Agenzia Interregionale per il fiume Po che ha rapporti istituzionali con le cinque Regioni più ricche d’Italia. Possiamo solo immaginare quanto non è accaduto per le centinaia di fiumi e torrenti che scendono dalle nostre montagne, anch’esse abbandonate senza abitanti e senza manutenzioni.
Il nostro Paese, invece che indebolire (privatizzandolo) il Welfare delle persone, dovrebbe dar vita a un secondo Welfare, quello del territorio. Con gli stessi presupposti del Welfare delle persone: prevenire è meglio che curare, se ognuno fa il suo dovere non serve nessun commissariamento, è necessario un sistema nazionale e regionale di indirizzo e di intervento, non ci si può affidare alle logiche di incontro spontaneo di domanda e offerta, va programmata una spesa pubblica pluriennale (fatta di investimenti a sostegno di progetti condivisi e non di “bonus” a prescindere). Nessuno vuole introdurre un’economia statalista che non ha mai avuto grandi successi nel mondo, ma nemmeno un liberismo che delega alla spontanea intrapresa dei singoli la soluzione dei problemi collettivi. Tanto più che sviluppare un Welfare del territorio (dai bisogni ai progetti di manutenzione e riqualificazione) porterebbe alla nascita di molte migliaia di posti di lavoro. Un lavoro molto utile per il Paese: per le condizioni di vita dei suoi abitanti, per attrarre nuova residenza, per un turismo di qualità.
Gaetano Sateriale