Susanna Camusso attribuisce alla misoginia l’ondata di critiche che ha colpito mediaticamente nei giorni scorsi la segretaria del Pd dopo la sua intervista a Vogue. Avrà certamente ragione, perché lei, prima donna a guidare la Cgil, di misoginia se ne intende. Ma certo dietro l’insistenza con la quale tutti si sono sentiti in dovere di misurarsi contro Elly Schlein c’è qualcosa di più. C’è stata l’invidia, la gelosia, il dispiacere forte di veder salire una outsider a una carica per raggiungere la quale si era tanto, quanto invano penato. E c’è senz’altro una prova di cattivo giornalismo.
La segretaria del Pd avrà certamente commesso un errore rilasciando la sua prima intervista a un settimanale “leggero” come Vogue, ammesso che lo sia, leggero, perché non sono gli argomenti, ma il modo di trattarli che può dare il metro della “leggerezza”. E Vogue è certamente un periodico di grande forza e serietà nel suo campo. Ma non è questo presunto errore che può giustificare le pagine e pagine che importanti quotidiani, anche appartenenti alla cosiddetta sinistra, hanno dedicato a questo episodio. Sprecare intere mezze pagine, a intervistare la stilista della Schlein o Fausto Bertinotti sull’opportunità di avere una personal shopper non è prova di buon giornalismo. È solo un’altra testimonianza di quell’antipolitica che da troppi anni ammorba il giornalismo italiano.
Io, che sono nato e cresciuto a Il Sole 24 Ore, sono stato abituato a una serietà che forse non è più di moda. Ci dicevano che noi di quel giornale eravamo i più seri e forse in parte lo eravamo anche, ma perché eravamo sempre attenti a non debordare mai da uno spirito concreto che dettava tutte le nostre scelte, pratica obbligatoria in un giornale economico. Non andavamo incontro alla sensibilità di chi ci avrebbe letto, non scrivevamo quello che loro avrebbero avuto piacere a leggere. Cercavamo di raccontare le cose vere, davamo la priorità a quelle che ci sembravano fossero le cose essenziali, le notizie più urgenti. Avremmo chiesto alla segretaria del Pd cosa pensasse, tanto per rimanere nel nostro campo, della crisi del lavoro, della caduta della rappresentanza, cosa si propone di fare per sostenere la democrazia, per aumentare il benessere dei lavoratori e dei poveri.
E invece, sfogliando i giornali, abbiamo visto colleghi parlare di armocromia piuttosto che di autonomia differenziata o di presidenzialismo, di precarietà o di povertà. Ed è così che è stato possibile leggere su quegli stessi quotidiani parole alate sulla buona volontà e capacità del governo Meloni che con il nuovo decreto, varato non a caso il primo maggio, sta cercando di affrontare e risolvere i nodi cruciali del mondo del lavoro. Senza tener conto che con questo decreto si abbassano le difese della povertà, eliminando di fatto il reddito di cittadinanza, che avrà avuto tutti i difetti, ma comunque prestava soccorso ai meno abbienti, si accentua la precarietà dando via libera ai contratti a termine, che sono proprio il contrario di quelli a tempo indeterminato.
E senza tener conto che convocando i sindacati il pomeriggio del giorno prima del varo del decreto si commetteva non uno sgarbo, una scorrettezza, ma un attacco forte al sistema della rappresentanza. Non si fa dialogo sociale informando i sindacati a cose fatte, ma discutendo con loro dei problemi del mondo del lavoro, sottoponendo alla loro attenzione ragionamenti compiuti, cercando un’interlocuzione. Senza cedere indiscriminatamente alle loro richieste, ma parlando, discutendo, contrattando con loro che rappresentano quei lavoratori per i quali si afferma di voler legiferare. Ma forse il punto è proprio questo, che una certa parte politica nega la rappresentatività dei sindacati e non a caso non esita ad appropriarsi anche della festa dei lavoratori per imporre le proprie ragioni e oscurare quelle degli altri.
Massimo Mascini