Non è facile capire se la riforma del mercato del lavoro spagnola sia davvero esportabile, come molti cominciano a credere anche a casa nostra, ma certamente questa innovazione legislativa ha cambiato in meglio le cose. La Spagna si caratterizzava infatti per la estrema precarietà del lavoro. Tanti lavori per poco tempo, spesso mal pagati. La riforma di Yolanda Diaz, la ministra del lavoro di Madrid, ha cambiato drasticamente il quadro, portando stabilità nei rapporti di lavoro e alzando il livello delle retribuzioni.
La prima mossa è stata quella di dare forza ai contratti nazionali di lavoro. L’abitudine è stata, fin qui, quella di farli scadere e, in assenza di un rinnovo automatico, sostituirli con contratti aziendali, i quali spesso prevedevano retribuzioni più contenute. Adesso i contratti mantengono la loro validità anche dopo la loro scadenza e i contratti aziendali sono validi solo se prevedono retribuzioni superiori a quelle medie del settore.
Ancora, la riforma è intervenuta sulle diverse e possibili modalità contrattuali. Erano moltissime, come del resto in Italia; adesso la normalità sono i contratti a tempo indeterminato e le alternative solo tre: due riservate alla formazione, in diverse accezioni; la terza riguarda i contratti a tempo determinato, possibili solo in circostanze eccezionali: picchi temporanei di produzione e sostituzioni in casi di maternità o malattia. In tutti gli altri casi sono previsti esclusivamente contratti a tempo indeterminato.
Questo ha causato una netta diminuzione dei contratti a termine, erano il 26% del totale, adesso non arrivano al 18%. E l’occupazione in generale è cresciuta, rompendo il muro, finora mai superato, dei 20 milioni di persone attive, mentre il numero dei disoccupati è sceso per la prima volta sotto i tre milioni di unità.
A questo risultato eccezionale ha contribuito anche un intervento per rendere più difficili e costose le esternalizzazioni. Gli appalti sono sempre possibili, ma solo in casi limitati e indicati con precisione, e garantendo comunque retribuzioni analoghe a quelle dei lavoratori interni all’azienda appaltante. E per non farsi mancare nulla gli spagnoli hanno creduto opportuno intervenire anche sul salario minimo, che hanno aumentato di 80 euro mensili. Adesso è pari a 1.080 euro per 14 mensilità.
Ma, per tornare all’interrogativo iniziale, questa formula, che sembra funzionare, è esportabile? Funzionerebbe anche in Italia? Nessuno può dirlo, anche se qualche intervento tra quelli attuati dalla Diaz sembra perfettamente applicabile anche a casa nostra senza creare patemi d’animo. Resta però un dato di fondo che non va dimenticato. La riforma del mercato del lavoro è passata nel parlamento spagnolo per il rotto della cuffia, con un solo voto di scarto, 175 voti a favore, 174 contrari. Ma aveva il paese alle spalle. È stato il frutto di un’azione di concertazione tra governo e parti sociali. Su alcune cose gli industriali avevano protestato o titubato, ma la riforma nel suo complesso è stata accettata e voluta da tutti. I critici ricordano che il fronte degli imprenditori è stato convinto anche dal fatto che è previsto un generoso sostegno del welfare nei periodi di disoccupazione con formule molto vantaggiose per le aziende. Ma la realtà è che all’accordo sono arrivati tutti assieme, governo e parti sociali.
È possibile che questa comunione di spiriti si manifesti anche da noi? Per il momento è lecito dubitarne. A favore di un grande patto che riformi profondamente il mercato del lavoro, sembra essere rimasta solo la Cisl. Cgil e Uil protestano contro la precarietà, ma quando si parla di un patto sociale si irrigidiscono. Confindustria il patto lo voleva, è stata a lungo in prima linea a sollecitarlo, ma adesso Carlo Bonomi sembra essersi stancato di gridare nel deserto, guarda altrove. E il governo, che pure cita sempre dialogo e consultazioni, per lo più si limita a brevi informative alle parti sociali su cosa sta per approvare, senza promuovere mai un’autentica concertazione.
E allora, cosa è lecito aspettarsi per ridurre la precarietà anche a casa nostra? Restano sempre le politiche attive del lavoro, che dovrebbero completare gli interventi attuati negli anni passati, ma anche qui non si vede una luce. Il tunnel resta buio e fa un po’ paura. Ma fare un po’ di chiarezza è un dovere per chi vuole governare e governare bene il paese.
Massimo Mascini