Non so quanti abbiano fatto attenzione alla recente dichiarazione dei potenti sindacati metalmeccanici tedeschi di porre, al centro delle prossime rivendicazioni, la richiesta della settimana a quattro giorni, a parità di salario.
Chi conosce bene la storia dei sindacati di quel paese, sa che la rivendicazione della riduzione d’orario, a parità di salario, non è mai stata centrale nelle loro piattaforme rivendicative, per lo più incentrate su robusti aumenti retributivi, sempre in linea con la crescita della produttività media del settore.
A leggere, sotto traccia, i pochi articoli che sono usciti sul tema, si scorge però una motivazione direi poco “economicista” alla base di questa nuova proposta: la necessità di individuare nuovi equilibri tra lavoro e qualità della vita, anche per poter attrarre nuove disponibilità occupazionali.
Si tratta di ridurre l’orario lavorativo non solo per ridurre la fatica della settimana lavorativa (certamente si ricorderanno le mitiche battaglie delle Union Inglesi per il sabato libero) ma compare, per la prima volta, nel panorama rivendicativo di un sindacato, forte e rappresentativo in una società tra le più ricche ed avanzate in Europa, la necessità di ottenere una diversa distribuzione dei tempi di vita e di lavoro.
Insomma, senza trascurare gli impatti sulla produttività e sulla competitività aziendale, i sindacati metalmeccanici si sono posti la questione di un nuovo paradigma lavorativo, non solo di una semplice riduzione d’orario.
Vedremo se queste “grandi speranze produrranno solo dei piccoli cambiamenti” ma certamente la questione della settimana di quattro giorni lavorativi ormai sta uscendo dalla fase “episodica e sperimentale” e sta emergendo come una questione rilevante del prossimo ciclo negoziale.
Non sfugge a nessuno che se i sindacati tedeschi riuscissero ad ottenere questo risultato, diventerebbero un elemento di confronto in tutto il continente europeo.
Mi preme qui evidenziare una fondamentale differenza tra questo approccio “contrattualista” e quello “dirigista” della Francia, quando introdusse la settimana a 35 ore, sono convinto che la solidità di una conquista sociale e la sua “aderenza” alle reali condizioni materiali che la sostengono, sia meglio rappresentata dalla contrattazione tra le parti piuttosto che da un intervento legislativo calato dall’alto.
Infine credo che questa nuova fase meriti una più approfondita discussione tra i soggetti titolari della contrattazione anche in Italia magari individuando “linee comuni” che possano aiutare al contrattazione di prossimità ad avviare nuove e più proficue sperimentazioni.
Luigi Marelli