Il prossimo 18 aprile, 354 praticanti affronteranno l’esame per diventare giornalisti. Un articolo, una sintesi, un questionario e, poi, per chi viene ammesso, gli orali. E’ la 137° sessione nella storia dell’Ordine, che il 3 febbraio scorso ha compiuto sessant’anni. La categoria è in crisi, gli ultimi arrivati vengono sfruttati e sottopagati, i giornali vendono sempre meno copie cartacee, i siti web seri, magari a pagamento, subiscono la concorrenza di uno sfrenato flusso di informazioni senza alcun marchio di controllo, le false notizie hanno la stessa attendibilità, e spesso maggiore appeal, di quelle autentiche, i potentati politici ed economici, sotto qualsiasi latitudine, impongono spesso e volentieri la mordacchia o si avvalgono di chierici servizievoli e compiacenti, persino l’intelligenza artificiale, tipo ChatGPT, insidia il lavoro del vecchio cronista.
Balla lo stesso concetto di verità, che “si disintegra in polvere di informazioni”. Byung-Chul Han, filosofo coreano con cattedra in Germania, autore di “Infocrazia”, citando Platone sostiene che “mentre pensiamo di essere liberi, oggi siamo intrappolati in una caverna digitale”. Gli esseri umani, argomenta, sono declassati “a bestie da dati e consumo”. E, giocando sull’assonanza della lingua tedesca, avverte che die Ware (la merce) sostituisce das Whare (il vero).
Ma se questo è il fosco contesto, perché tanti giovani aspirano ancora a fare il giornalista? Perché resta il mestiere più bello del mondo, quello che permette di esercitare sempre e comunque la passione della ricerca e del dubbio.
David Randall, prima della scomparsa, avvenuta nel 2021, aveva realizzato un bellissimo libro, da consigliare a tutti gli aspiranti professionisti, e a coloro che non si rassegnano alla sconfitta, intitolato “Il giornalista quasi perfetto”. Con una scintillante aneddotica, traccia le coordinate per sottrarsi alla routine, all’ovvietà, al servilismo, all’imprecisione, al cinismo, alla pigrizia, ai pregiudizi. In sostanza, bisogna pensare ai lettori e non a se stessi. Essere sempre liberi, non smettere mai di studiare e di approfondire.
Ci sono anche ovviamente, consigli di scrittura. Randall cita la vicenda di Meyer Berger, che, il 7 settembre del 1949, pubblicò sul New York Times un articolo esemplare riguardante una sparatoria nel New Jersey.
Ecco il cappello: “Stamattina, Howard B. Unruth, un giovane di 28 anni dall’aria dolce e mansueta, reduce di tante battaglie in Italia, Francia, Austria, Belgio e Germania, con la Luger che aveva conservato come ricordo di guerra ha ucciso dodici persone intorno alla sua casa nel quartiere di East Camden, e ne ha ferite altre quattro. Unruth, un ragazzo magro dalle guance infossate alto un metro e ottanta, paradossalmente dedito alla lettura della Bibbia e alla pratica costante con le armi da fuoco, non aveva mai dato alcun segno di malattia mentale, ma stasera gli specialisti hanno dichiarato che si tratta senza dubbio di un caso psichiatrico, e che l’uomo covava da almeno due anni un complesso di persecuzione”.
Un lead perfetto. La regola delle cinque W (when, who, what, where, why) è pienamente rispettata, nessuna ripetizione, non si fa ricorso a citazioni ovvie, bandito il gergo poliziesco, vengono risparmiati triti aggettivi come scioccante o tragico. Berger vinse il premio Pulitzer e regalò la somma alla madre vedova e traumatizzata dell’assassino.
Va aggiunto che per completare il suo pezzo aveva intervistato almeno cinquanta persone. Perché la chiarezza espositiva è inscindibile dalla ricerca di tutti i particolari a disposizione. In Rashomon, un vecchio film di Akira Kurosawa, l’uccisione di un samurai viene raccontata in maniera diversa dai vari testimoni, perché ognuno ha assistito da una visuale diversa, e solo mettendo assieme i loro racconti è possibile ricostruire l’accaduto.
La verità presuppone che si sia onesti e instancabili nel ricercarla. Alberto Cavallari, terminando “La fabbrica del presente”, paragona il buon cronista a Sisifo. Può essere sfinito, amareggiato, deluso, ma torna sempre a riprendere il masso e a spingerlo verso l’alto: “La sua fatica è la sua dignità”. E questo, come diceva Camus, lo rende felice.
Randall cita una frase di Hubert Renfro Knickerbocker: “Se vedi centinaia o migliaia di persone normali che cercano di scappare da un posto, mentre un manipolo di pazzi cerca di entrarci, non c’è dubbio, sono giornalisti”. L’arte di arrivare tardi nel più breve tempo possibile, ironizzava Stig Dagerman.
Marco Cianca