Secondo l’autorevole definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, «la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste solo in un’assenza di malattia o d’infermità». Per quanto riguarda la salute mentale, invece, ci pensa l’OMS ad renderci edotti: «Per salute mentale si può intendere uno stato di benessere in cui l’individuo realizza le proprie capacità, riesce a far fronte alle normali tensioni della vita, sa lavorare in modo produttivo e fruttuoso ed è in grado di dare un contributo alla comunità in cui vive». Godere di buona salute mentale, quindi, significa riuscire ad affrontare la vita in modo sano e consapevole, relazionandosi con il prossimo in maniera costruttiva e disporre di un’attitudine positiva al pensiero, alla comunicazione e alla crescita personale. Fatti che incidono sull’autostima, rafforzano la resilienza e permettono una partecipazione attiva nella società e nella vita professionale.
Ma a quanto pare, sempre secondo l’OMS, «quasi la metà della popolazione soffrirà di un disturbo mentale a un certo punto della vita, mentre si stima che, in un dato momento, quasi il 10 % della popolazione soffra di depressione e un ulteriore 2,6 % soffra di un disturbo psicotico. Anche l’ansia rappresenta un aspetto importante. Nell’UE a 27 si è riscontrato che il 15 % delle persone aveva chiesto aiuto per un problema psicologico o emotivo, mentre il 72 % aveva assunto antidepressivi in un determinato momento della vita». In generale, i problemi di salute mentale sono piuttosto diffusi in tutto il mondo e sono conseguenze di una vita segnata da elementi stressogeni o eventi
traumatici.
Il dato più allarmante, però, è che i disturbi mentali sono sempre più spesso legati alla sfera lavorativa dell’individuo: «di fronte a un costante sovraccarico di lavoro una persona può cadere in depressione, mentre un’altra può soffrire di burnout e un’altra ancora può diventare ansiosa», dice il Rapporto della Commissione Europea. Ad oggi, infatti, secondo quanto emerso dal report “State of the Global Workplace” di Gallup che ha indagato la situazione di 150mila persone in 160 paesi del mondo, più di 300 milioni di persone nel mondo soffre di disturbi mentali legati al proprio lavoro, evidenziando in particolare quanto la soddisfazione per il lavoro che si svolge sia bassa in tutto il mondo. Il 59% delle persone intervistate ha riferito di essere stato stressato nei giorni precedenti, il 56% è stato preoccupato e il 31% ha provato rabbia. E le cose peggiorano se si guarda all’Italia: solo il 4% degli intervistati si sente coinvolto nel proprio lavoro, il 49% è fortemente stressato, il 45% è preoccupato e il 27% delle persone prova tristezza quando è a lavoro. Il Paese degli infelici, insomma.
Non stupisce affatto che siano i giovani a essere più colpiti dal mal-di-lavoro: secondo i dati Indeed, il 59% dei Millennials e il 58% della Generazione Z soffrono di problemi di burnout. il 47% è esausto dal lavoro e il 46% è perennemente affaticato. Ma perché il lavoro è diventato una fonte di rischio per il benessere psicosociale? Contenuto del lavoro, carico e ritmo, programmazione, controllo, ambiente e attrezzature, cultura e funzioni organizzative, rapporti interpersonali, ruolo nell’organizzazione, sviluppo della carriera, violenza e bullismo sono solo alcuni dei fattori che incidono sulla serenità del lavoratore, cui si sommano componenti socioeconomiche quali economia e mercato del lavoro (minaccia o condizione di disoccupazione, tipo di contratto di lavoro, sicurezza, reddito), geografia e legislazione (sistema previdenziale).
Moderni Sisifo, costretti a spingere il nostro masso per l’eternità, pronti a vederlo rotolare a valle ed eternamente ricominciare da capo. Senza punti fissi (un’ età degnamente pensionabile e che lo sia una volta per tutte, una concreta aspettativa nell’orizzonte del lavoro, dell’istruzione, della formazione) perdiamo dignità, rimettiamo in discussione noi stessi e i nostri valori e finiamo per identificarci in modelli che non ci rappresentano intimamente. Inoltre, successo, ricchezza, popolarità e status sociale sono i nuovi punti cardinali attraverso i quali orientarsi nel viver civile, complice la cultura dei social che ci invade con i suoi filtri e le frasi motivazionali usate da sedicenti imprenditori digitali e non solo. In questo modo inadeguatezza, fallimento, insoddisfazione, depressione diventano i termini chiave che interpretano il presente e il futuro, sentimenti rinverditi dalla pandemia e dalla nuova etica dello stare al mondo: sacrificio – no pain, no gain -, velocità,
flessibilità,“skills-skills-skills”, reinventarsi, mai fermarsi; un all you can eat di ambizioni e aspettative, che finiscono per coincidere, per cui un appena lieve scostamento dal parametro ti mette fuori gioco. Vita e lavoro finiscono per coincidere e diventano un Giano bifronte. In questo modo, trasversalmente, si sviliscono la dignità del lavoro e del lavoratore, che diventano praticamente un’entità unica e inscindibile. “Immagina, puoi”, cantilenava uno spot televisivo, ma il sogno sembra ormai finito.
Ma se non fosse per loro, almeno si consideri la tutela del benessere psicologico un plus di profitto: i disturbi mentali, infatti, hanno effetti di scarsa produttività, costi dovuti ad assenteismo, presenteismo, morale basso della forza lavoro e una cattiva reputazione dell’organizzazione, nonché di disabilità e pensionamento anticipato. Sempre secondo i dati riportati dalla Commissione Europea, nel 2007 i costi di produttività dell’assenteismo dovuto a patologie mentali sono ammontati in totale a 136 miliardi di euro, pari all’incirca a 624 euro per persona occupata nell’UE nello stesso periodo. I problemi di salute menale sono in aumento in tutta Europa e i costi delle conseguenti assenze sono superiori a quelli sostenuti per qualsiasi altro tipo di malattia. Ma se prevenire è meglio che curare, al di là delle normative in materia di salute e sicurezza che disciplinano tutti gli aspetti della SSL (nell’UE è la direttiva quadro 89/391/CEE, in Italia il decreto legislativo 81/2008 coadiuvato dall’adattamento delle norme di gestione dell’HSE britannico voluto dall’INAIL), i datori di lavoro sono doppiamente avvantaggiati nell’investimento a favore della salute mentale, poiché rientrano nell’etica e nella cultura dell’organizzazione che influiscono anche sulla reputazione dell’impresa e contengono l’emorragia di dimissioni (soprattutto delle generazioni Millenials e Z) che mettono in grande difficoltà le risorse umane per la ricerca di nuovi profili professionali pronti a essere nuovamente stressati.
In questo senso, i principi di prevenzione della malattia mentale sono dei dispositivi formidabili per evitare rischi e valutare quelli inevitabili, ma soprattutto occorre invertire la pericolosa rotta intrapresa e finalmente adeguare il lavoro all’uomo, non più e mai più in contrario. Occorre una politica di promozione della salute mentale sul luogo di lavoro , occorrono approcci e buone pratiche non sono possono svincolarsi da investimenti: la salute non si concentra solo nell’individuo, ma anche sull’ambiente sociale e sulle infrastrutture professionali (come il welfare aziendale, che a questo pare non basta o i cui contenuti sono poco conosciuti dai destinatari). Ma a quanto pare la cultura tossica del lavoro è troppo radicata e lo stigma sociale che bolla la malattia mentale come un tabù rende ancora più inestricabile la matassa. La partita si gioca su più tavoli.
Elettra Raffaela Melucci