È stato sprezzante Carlo De Benedetti con la Confindustria e con Carlo Bonomi. Interrogato da Ferruccio de Bortoli alla presentazione del suo nuovo libro l’ex proprietario di Olivetti ha detto, testualmente, che la Confindustria “non serve a nulla” e che “negli ultimi anni è diventata il trampolino di lancio per il presidente che passa a guidare un’azienda di Stato”. Il fatto che si parli di un incarico in una grande azienda pubblica per Bonomi non toglie nulla al rilievo politico di Confindustria. Certo, un po’ di delusione per la presidenza Bonomi è innegabile. Durante i quattro anni di Vincenzo Boccia il suo successore si era imposto come il grande rinnovatore, promettendo che avrebbe portato fuori Confindustria dal cono d’ombra nel quale si era trovata la confederazione, non più forte soggetto politico, troppo esposta politicamente. Però poi ha portato a casa scarsi risultati. Ha detto molte cose, ne ha fatte poche. L’unico vero atto politico che di cui è stato protagonista è venuto quando all’assemblea della confederazione di fine 2021 ha proposto di stringere un grande patto triangolare per ridare slancio al paese, trovando il consenso di Mario Draghi, ma scontrandosi con l’indifferenza di Maurizio Landini, che non è riuscito a scalfire.
Confindustria è rientrata, o non è mai uscita dall’ombra. Come le confederazioni operaie, del resto, che non brillano di centralità. Una situazione complessa, che comincia a preoccupare, specie se la si collega all’ultima uscita di Intesa Sanpaolo che la settimana scorsa ha annunciato che resterà dentro l’Abi, la confederazione delle banche, ma non applicherà più il contratto nazionale di lavoro della categoria. Se ne farà uno suo, come anni fa fece la Fiat, che però era anche uscita da Confindustria. Un fatto inquietante, perché ci sono sempre state pratiche di opting out, di abbandono del contratto nazionale, ma Intesa è la prima banca del paese. E, sempre in questi giorni, abbiamo avuto il nuovo contratto per Stellantis, che ha ricevuto grandi consensi per i contenuti innovativi e di rilievo, perché ha dato più salario, più welfare, ma anche più partecipazione, come ci ha testimoniato Vincenzo Retus, il responsabile delle relazioni industriali di Iveco e Cnh Industrial. Proprio la partecipazione, che nel mondo ex Fiat non ha mai goduto di buona accoglienza.
Ma allora, cosa sta accadendo? È la formula confederale che non funziona più, o anche solo sta perdendo appeal? Certo, i contratti nazionali di lavoro, che sono sempre stati l’atto forte delle confederazioni, da quando la politica monetaria è stata spostata a Francoforte alla Bce hanno perso centralità. Erano fondamentali, più che importanti, perché se si sbagliava un contratto nazionale questo diventava immediatamente un problema economico per tutto il paese, lo sbilanciamento aveva ripercussioni forti sull’intera economia nazionale. Adesso è diverso, se si sbaglia un contratto ne pagano le conseguenze i lavoratori, o le aziende a seconda del caso, non il paese. E chi firma o deve firmare questi contratti non è più centrale. L’immagine delle confederazioni si è quanto meno appannata. Non a caso si ricomincia a parlare dell’importanza del contratto aziendale, più flessibile, in quanto tale modellabile sulle esigenze della singola impresa. Il contratto nazionale si indebolisce anche perché se nell’industria questo istituto ancora funziona bene, nei servizi, che rappresentano la parte altamente maggioritaria di tutto il mondo del lavoro, è particolarmente deficitario.
Ma forse, al di là della dinamica dei contratti di lavoro, per quanto centrale, è possibile notare una diffusa difficoltà di Confindustria a percepire quanto sta accadendo nel mondo, i cambiamenti che si verificano e che sono sempre più vasti. Da quando Bonomi è salito alla presidenza di Confindustria è successo di tutto, è vero, il Covid, l’inflazione, la guerra in Ucraina, quindi in Europa, le profonde trasformazioni nel mondo del lavoro, sempre più centrato sulla persona. Il punto è che Confindustria non è sembrata in grado di seguire queste trasformazioni, capirle e quindi approntare velocemente gli strumenti per modificare di conseguenza le proprie strategie. È rimasta un po’ indietro, mentre le imprese acceleravano la loro trasformazione, come è risultato dai brillanti risultati di crescita di questi ultimi anni.
I sindacati in qualche misura hanno mostrato di aver compreso che il mondo attorno a loro stava cambiando. Forse le loro proposte non sono state all’altezza delle necessità. Ma hanno mostrato almeno voglia di adeguarsi. La Confindustria molto meno. Anche per quanto riferisce ai diversi soggetti. Un esempio per tutti, i Giovani imprenditori di Confindustria, per decenni centro di grande elaborazione, fonte ininterrotta di grandi idee strategiche su come affrontare il mondo e i suoi cambiamenti. Negli ultimi anni non hanno dato segnali di loro stessi. Hanno fatto i loro convegni, le loro riunioni, ma non hanno mai fatto notizia. Colpa dei giornali, troppo distratti? Forse sì, ma certamente c’è altro. Cosa serva all’Italia non si sa, non lo sa nemmeno De Benedetti, che pure ha dato questo sottotitolo al suo libro. Ma sarà opportuno cominciare a interrogarsi.
Massimo Mascini