Un’infermiera professionale di una struttura sanitaria pubblica lombarda ha promosso la causa contro l’azienda di cui era dipendente, lamentando di essere stata destinataria di diversi atti di molestia ad opera del dirigente medico del suo reparto, dovuti al suo orientamento sessuale. In particolare, ha lamentato di essere stata oggetto di queste molestie a causa della sua relazione sentimentale con una delle dottoresse del reparto.
Il Tribunale di Busto Arsizio ha svolto una ricca ed articolata attività istruttoria.
All’esito delle prove testimoniali assunte, il Tribunale ha ritenuto che l’infermiera avesse ragione perché aveva dato piena prova dei vari episodi specifici che erano stati da lei dedotti a sostegno della sua domanda:
-il dirigente medico la chiamava con il nome della compagna e viceversa,
-il dirigente medico, rivolgendosi all’infermiera, ” in occasione della visita di una paziente giovane che aveva dichiarato di non avere rapporti penetrativi, ed “ammiccando” le diceva “tanto a queste gli piace la minchia di gomma perché se stanno ferme gli piace pure”;
-il dirigente medico, in altra data, alla presenza di altri collaboratori, rivolgendosi all’infermiera, le ha detto “dai trovami uno scannatoio che tanto tu sai stare con le puttane”;
-in un’altra occasione il dirigente medico, lamentando la gestione non corretta delle agende sbatteva la porta, dava pugni contro il muro e si rivolgeva all’ infermiera urlandole “non hai capito che non sei pagata per pensare“. Da quel momento l’infermiera è stata estromessa dalla gestione dell’agenda.
Il Tribunale di Busto Arsizio, pur affermando che i fatti così come denunciati dall’infermiera erano stati realmente posti in essere dal medico del reparto, non ha ritenuto che fosse stata fornita la prova sufficiente che questi comportamenti fossero da collegare causalmente alla relazione omosessuale dell’infermiera con la collega dottoressa dello stesso reparto.
Il Tribunale non ha ritenuto, pertanto, sussistente la natura discriminatoria dei comportamenti posti in essere dal medico ma ha ritenuto che questi comportamenti fossero, comunque, illeciti e da qualificare come atti di molestia sessuale. Il Tribunale di Busto Arsizio ha condannato sia il medico che l’azienda sanitaria al risarcimento del danno per molestia sessuale, fattispecie meno grave della discriminazione.
Contro la sentenza del Tribunale hanno proposto Appello sia l’infermiera che l’azienda sanitaria; entrambe insoddisfatte, per opposte ragioni.
La Corte di Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione di entrambe le parti, ha innanzitutto ribadito il principio che gravava sull’infermiera dimostrare la sussistenza della discriminazione contro la sua persona. Questa prova, a giudizio della Corte di Appello, è stata idoneamente fornita. Il comportamento posto in essere dal medico a danno dell’infermiera doveva essere correttamente qualificato come comportamento discriminatorio “oltre che essere di cattivo gusto, per usare un eufemismo,”. Il medico, per la Corte di Appello, trattava l’infermiera “in maniera diversa e peggiore rispetto alle altre infermiere del reparto, mortificandola e isolandola, impedendole soprattutto di svolgere il proprio lavoro in maniera serena al pari delle colleghe” per il suo essere lesbica e per avere un rapporto sentimentale con una delle dottoresse del reparto.
L’azienda sanitaria per la Corte di Appello non ha dato la prova che quel medico “fosse solito usare un linguaggio volgare ed allusivo anche nei confronti delle altre infermiere o dottoresse” del reparto, a prescindere dal loro orientamento sessuale.
Per la Corte di Appello di Milano dalle prove testimoniali assunte, è emerso in maniera chiara che le ostilità da parte del medico “non erano legate a motivi professionali ed in particolare alla gestione delle agende ma erano legate all’orientamento sessuale dell’infermiera perché erano iniziate proprio quando il medico aveva appreso della relazione sentimentale dell’infermiera con la dottoressa del reparto. Da questo momento egli aveva fatto di tutto per allontanare l’infermiera dal suo reparto, con ogni mezzo.
Per la Corte di Appello ” La condotta complessiva, …, è oggettivamente grave perché ha colpito l’infermiera nella sua dignità di essere umano, screditandola in ragione del suo orientamento sessuale che appartiene esclusivamente alla sfera privata di ciascun individuo, umiliandola e ponendola in una situazione di sottoposizione ingiustificata, privandola di quella tutela sul luogo del lavoro che deve essere assicurata dal datore di lavoro.”
La Corte di Appello di Milano, riconoscendo la discriminazione, e non più la semplice molestia sessuale, come aveva dichiarato precedentemente il Tribunale, ha triplicato il risarcimento riconosciuto e spettante all’infermiera per la sofferenza patita.
Con la sentenza, la Corte di Appello ha condannato in solido l’azienda sanitaria al risarcimento dei danni e al pagamento delle spese processuali perché, “pur avendo avuto conoscenza della condotta discriminatoria posta in essere dal medico, non ha agito a tutela della lavoratrice ma anzi l’ha convinta a presentare la domanda di trasferimento.” Corte di Appello di Milano sezione lavoro sentenza n. 1114 pubblicata il 6 marzo 2023.
I giudici della Corte di Appello hanno sentito l’esigenza di precisare che non assumevano provvedimenti interdittivi nei confronti del medico solo perché nel frattempo il rapporto di lavoro dell’infermiera con l’azienda sanitaria era definitivamente cessato e non vi era più motivo per adottare ulteriori provvedimenti a tutela della persona e dell’orientamento sessuale dell’infermiera.
Biagio Cartillone